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SUBROSA, Rebecca Vernon e Kim Pack

Creato il 09 ottobre 2013 da The New Noise @TheNewNoiseIt

Subrosa

Forte di un nuovo album che ne conferma la caratura e spinge ancora oltre i limiti della loro miscela a base di un doom contrappuntato da violini e dalla chiara impronta personale, la formazione di Salt Lake City ha saputo colpire nel segno e si è guadagnata ancora una volta la nostra piena attenzione. Il lavoro sulle grafiche con Glyn Smyth e il marchio di garanzia Profound Lore, per non parlare della citazione del libro “And the Ass Saw the Angel” di Nick Cave, aggiungono spezie a una chiacchierata che ci permette di fare con loro il punto della situazione.

I nuovi brani sembrano avere un taglio decisamente personale, in qualche modo più doom e malinconico. Esiste un motivo preciso, magari collegato al vostro vissuto personale o come band, per questa direzione più emotiva della vostra musica?

Kim Pack (violino, voce): Credo che molti di noi abbiano affrontato una serie di cambiamenti importanti nella loro vita mentre scrivevamo il nuovo disco. Sapevamo che Rebecca stava addentrandosi in percorsi creativi molto profondi per esprimere la sua prospettiva e le sue esperienze personali, quindi ci siamo sentiti in dovere di fare lo stesso. Per quanto riguarda i violini, io e Sarah ci siamo divise i brani e ci abbiamo lavorato separatamente prima di iniziare a collaborare. Per questo siamo riuscite a sondare tutte le possibilità espressive e abbiamo scavato a fondo, a un livello intimo, senza riserve.

Rebecca Vernon (chitarra, voce): È interessante osservare come gli intervistatori abbiano intuito la natura personale di More Constant Than The Gods ed è innegabile che sia così. Dopo l’uscita di No Help For The Mighty Ones abbiamo affrontato dei periodi difficili. Così, quando ho ricominciato a scrivere dopo quei momenti, alcuni dei dolori più grandi devono essersi riversati nei miei riff e nei miei testi, così come nei violini di Kim e Sarah.

L’impressione è che abbiate svolto un enorme lavoro sui dettagli. Dalle voci alle linee melodiche, tutto appare confluire nell’insieme per apportare un ingrediente proprio al risultato finale. Credete che ciò sia collegato alla decisione di lavorare a brani più lunghi, con abbastanza spazio per divagare e sviluppare una scrittura più ricca?

Kim: Ricordo che Rebecca è venuta da me con le idee per alcuni brani nuovi. Io e lei viviamo insieme, quindi la sentivo lavorare nella sua stanza sul nuovo album notte dopo notte. Spesso mi diceva che non sapeva come ri-scrivere le canzoni perché non risultassero interminabili, così sono state effettuate milioni di modifiche nella sua stanza e nel nostro soggiorno, includendo strati di voci multiple, riff di chitarra ricostruiti o cambiati di posto. L’utilizzo di Garage Band e di registrazioni vocali con il telefono era pressoché continuo. Dopo aver compreso come ogni sezione fosse importante per ciascuna canzone e per l’album nella sua completezza, abbiamo capito che lo spazio e i cambiamenti di mood che stavano prendendo forma naturalmente erano essenziali e non potevano essere lasciati da parte.

Rebecca: “Stonecarver” era il mio brano preferito su No Help For The Mighty Ones e sentivo di voler continuare a spingermi in quella direzione anche per il disco nuovo. Adoro le possibilità che ti aprono brani più lunghi, la capacità di avere dei movimenti all’interno della canzone, movimenti che possono ripetersi, o non ripetersi, o ancora trasformarsi in qualcosa di completamente diverso a metà o alla fine del pezzo, proprio come nella musica classica. Naturalmente tutto questo richiede più dettagli, accuratezza e attenzione nel songwriting, come hai sottolineato tu. Le modifiche e le riscritture mi fanno ancora vedere l’ombra dello stress solo a ricordarle.

Continuate la collaborazione con Glyn Smith, che ha realizzato un altro artwork incredibile. Se il precedente era basato sul libro “Alone: Orphaned on the Ocean”, qual è l’ispirazione/concept del nuovo?

Rebecca: L’artwork è stato ispirato in parte dalla morte di mia madre nel 2007, la sua scomparsa mi ha iniziato a far pensare alla morte in un modo nuovo, come alla fine attesa di una vita che si è trasformata in un contenitore di dolori irreversibili. Ovviamente il concetto è saturo di ironia, perché la qualità della vita deve davvero essere precipitata in basso per farti accogliere la fine come se fosse un sollievo. La ragazza della copertina è la personificazione della morte, ed è stata un’idea di Glyn il rappresentarla come una donna bella e quasi divina. Credo che abbia catturato alla perfezione l’idea di morte che volevo rappresentare nell’artwork.

I testi mi hanno molto incuriosito e vorrei scoprire qualcosa in più. Perché avete scelto la frase “More Constant Than The Gods” come titolo?

Rebecca: Non mi piace pensare al titolo o all’artwork prima di aver completato la stesura dei testi per tutte le canzoni. Così, alla fine, è diventato evidente come tutti i pezzi avessero a che fare con la morte in un modo o nell’altro, sia in maniera aperta sia indiretta. “The Usher” è un po’ il brano centrale dell’album, perché è basato al 100% sulla morte. Così ho cominciato a pensare al suo testo una notte mentre mi stavo addormentando, cercavo un titolo e con quel verso è scattato qualcosa di speciale. Mi piace questa scelta, perché la frase ha molti strati di possibili significati differenti che, a volte, sono persino difficili da tradurre in parole. Il primo tra tutti, comunque, credo sia che, per quanto questo mondo possa essere frustrante e pesante e pieno di differenti divinità/religioni che spesso si combattono, c’è sempre una cosa su cui si può contare… la morte. Non è confortante?

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Che mi dici di Cosey Mo e del dolore di cui parli nel primo verso?

Kim: Cosey Mo è ispirata al libro di Nick Cave “And the Ass saw the Angel”. Visto che mi era stato caldamente consigliato da Sarah e Rebecca e che giocava un ruolo primario nella stesura dei testi, ne ho recuperata una copia e si è subito insediato nella graduatoria dei miei libri preferiti. La canzone descrive il dolore della protagonista quando prima viene accettata in segreto dai maschi del paese come prostituta e, poi, pubblicamente ridicolizzata e torturata dalla folla di fanatici religiosi stanchi dei suoi peccati. Le mogli assetate di sangue e i mariti infedeli alla fine la subissano di accuse e la distruggono insieme al suo mondo privato nel nome del giudizio divino. Questo brano rappresenta l’angoscia causata da accuse infondate e il disgusto che si prova ogni volta che la violenza è inflitta su una donna o su di un essere umano in generale.

Avete sempre amato mischiare linguaggi differenti come il doom e la musica da camera per creare un blend personale, tanto da diventare una delle proposte più interessanti nella scena. Credete ci siano altri musicisti legati alla vostra visione o che comunque condividano la vostra sensibilità?

Kim: Prendiamo ispirazione dai menestrelli girovaghi, dagli zingari e dai trovatori che girano il mondo con l’unico scopo di esprimere la loro gioia e il loro dolore attraverso la musica. Tutti i musicisti che abbiamo incontrato o ascoltato ci hanno ispirato, ci hanno motivato con i loro strumenti e le loro voci coraggiose. Siamo motivati/ispirati dai molti che hanno composto e suonato per anni e con tutti i mezzi a loro disposizione. Ad esempio: Blood Ceremony, Witch Mountain, Grails, Thrones, Beneath The Frozen Soil, Ovo, Eight Bells e molti altri ancora.

Rebecca: Credo ci siano degli artisti che ci ha ispirato più di altri: una band di Provo chiamata Red Bennies. Creavano una forma decisamente avanzata e incazzata di sludge nel 1996 ed erano influenzati dagli Sleep, ma suonavano come un incrocio tra EyeHateGod e Jimi Hendrix… Loro sapevano catturare alla perfezione una certa forma di rabbia che sentivo al tempo e mi hanno mostrato come la voce che diffondi con la musica possa fare la differenza nel mondo che ti circonda. C’è anche molto della sensibilità del folk degli Appalachi nel nostro suono e sinceramente non so da dove venga fuori. Non mi considero un’appassionata di folk e non ne ascolto spesso, sembra però venir fuori quando compongo. È molto strano.

Cosa mi dite della vostra partnership con la Profound Lore? Da un punto di vista esterno sembra la scelta perfetta, visto che la label appare come uno dei più grandi fan e sostenitori della band. Mi sbaglio?

Kim: Ci riteniamo onorate dall’essere parte della famiglia Profound Lore. Chris Bruni ci ha sempre supportato e ha creduto nella nostra voglia di creare.

Rebecca: Adoriamo essere su Profound Lore e ci sentiamo davvero fortunate a stare insieme a simili label-mates. Chris è un editore estremamente flessibile e comprensivo, ed è spinto da amore e passione per la musica che produce. Ci ha contattato per la prima volta dopo l’uscita di Strega per I Hate Records (2009), dicendoci che dovevamo considerare l’idea di realizzare l’album successivo su Profound Lore. Siamo rimasti in contatto e le circostanze si sono fatte favorevoli, così al momento giusto gli ho chiesto se voleva far uscire No Help For The Mighty Ones nel 2010 e per nostra fortuna ha accettato.

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Siete coinvolti in altri side-project o band? Com’è la vostra vita fuori dal gruppo?

Kim: Andy Patterson, una specie di leggenda a Salt Lake City, ha suonato in troppi progetti per elencarli tutti, sia come batterista sia come chitarrista. Oxcross, DONE, Top Dead Celebrity sono i pochi ancora attivi. Inoltre, continua a sudare nel suo studio come produttore e mago delle registrazioni. Ha prodotto centinaia di album a livello locale e nazionale durante gli ultimi quindici anni. Da Christian Creek potete aspettarvi di tutto a causa dei suoi gusti eclettici in fatto di musica. Nel prossimo futuro per certo vedrà la luce un parto selvaggio della sua mente.

Rebecca: Kim ha il suo progetto chiamato Cicadas che è una cosa da farti uscire di testa, mi piace dire che suona come incudini che cadono dal cielo su un campo di centinaia di capi di bestiame. Suona attraverso due casse Hex da basso e una da chitarra, tre testate e circa dieci pedali. È musica sperimentale, heavy e discordante, una sorta di doom noise con violino con il drummer Ansen Bischoff. Ha suonato il violino in molte altre band a cominciare da una delle band principali di Salt Lake City, i Loom. Aggiunge anche parti di violino ad altri progetti locali in fase di registrazione, come accade nell’ultimo album di Lindsay Heath. Sarah sta per cominciare un side project ambient, avant-garde e mediorientaleggiante: Aeya, qualcosa che suona come “torrenziali guerre tonali” e che vede lei al violino, un batterista e vari ospiti. Aeya combinerà semplici melodie antiche con soundscape al contempo pesanti ed eterei. La Sumeria incontra Azam Ali e i Bathory.

Sono curioso di sapere qualcosa della vostra attività live, c’è qualche possibilità di vedervi in Europa?

Kim: Ad ottobre suoneremo al Southwest Terror Fest in Arizona in ottobre, poi faremo un tour sulla costa a novembre e c’è una possibilità di toccare l’Europa il prossimo anno. Speriamo che arrivino altre possibilità per presentare questo album.

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