“A mio Padre”.
La fine, l’inizio. Con una dedica liberatoria, istintiva, d’amore, Stefano Sollima ha delineato ‘profeticamente’ una storia senza tempo. Una favola oscura, cupa e decadente dal valore profondo e concettualmente elevato, se trasposta allo spaccato contemporaneo di oggi, che minaccia le logiche ‘perbeniste e puritane’ di un’etica cancellata ormai dal sangue nefasto di un’umanità irrimediabilmente corrotta.
Il ritratto delineato dal regista romano, figlio del grande maestro Sergio Sollima, è un capolavoro di tecnica, forma e sostanza, un estemporaneo nero e iridescente che non lascia spazio a spiragli di luce perché la sua essenza è buia, torbida e tenebrosa. Una natura malata e contraddittoria quella di Suburra, contaminata dal tempo e dall’ombra di un’epoca calpestata da quel male spietato e immorale destinato a non eclissarsi mai: il potere.
Photo: courtesy of 01 Distribution
Roma, 5 novembre 2011. 7 giorni all’Apocalisse. Il prologo iniziale, preludio di un deflagrante climax nelle sequenze conclusive del film, ci conduce con mitigata cautela nel fervido mondo di Suburra, che prosaicamente evoca in senso metafisico il verso tragico ed epigrafico ‘Lasciate ogni speranza voi ch’entrate’ pronunciato da Dante prima di oltrepassare il portone dell’Inferno (Divina Commedia). E infatti, sin dall’inizio del film è viva la sensazione che la speranza sia soltanto una lontana chimera, un miraggio effimero. L’ultima fatica dell’autore dei brillanti Romanzo Criminale e Gomorra, ‘gestazioni’ seriali innovative che hanno portato una ventata d’aria fresca nell’ambiente del vecchio ‘tubo catodico’, esprime attraverso le immagini vivide e l’intensità di un racconto dal cinismo metodico una potenza emotiva e penetrante che diventa sempre più credibile con il passare dei minuti. Una parabola discendente e sovversiva che mette a nudo i meccanismi macabri e i raggiri ‘sistematici’ della Trinità Stato-Chiesa-Mafia, in un turbine di politica, criminalità e coinvolgimento ecclesiastico che fotografa al meglio un momento storico, quello attuale, in cui tutto sembra essere tristemente manipolato sotto gli occhi di un società amniotica, penetrabile e senza un solerte assetto identitario.
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Il sipario si apre con una drammatica confessione del santo Padre che da giorni sembra essere afflitto da incessanti dubbi e incertezze. Nel frattempo, alla fine di giornata intensa trascorsa in parlamento, il politico ‘corrotto’ Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino) si appresta a consumare, in uno sfarzoso hotel della capitale, una notte di sesso e droga in compagnia di due giovani squillo (tra cui una disinvolta Giulia Elettra Gorietti). Il preludio iniziale di una parentesi di passione e trasgressione occasionale si trasforma ben presto in un incubo senza fine, che nel suburbano ‘malsano’ di Roma non è destinato a passare inosservato. Ed ecco che entrano in gioco i protagonisti di Suburra, antieroi cittadini di un’immaginaria Sin City italica infangata dalla pioggia che si muovono nella penombra e controllano a loro modo i traffici locali. Come la banda della Magliana (Romanzo Criminale) e il clan dei Savastano (Gomorra), sono le cosche malavitose del substrato periferico della capitale a governare la città e all’occorrenza a dichiararsi guerra per accrescere la propria supremazia territoriale.
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A tirare le fila e a coordinare gli ingranaggi di una macchina in costante surriscaldamento è il cosiddetto Samurai, interpretato da un impassibile Claudio Amendola, il vero burattinaio dal carisma autorevole che porta il mantello (o meglio l’impermeabile) della leadership e cerca di ristabilire gli equilibri tra gli zingari cravattari della tribù degli Anacleti e i bad boys di Ostia capeggiati da Numero 8 (un irriconoscibile Alessandro Borghi, rasato e con una barba da hipster) e dalla sua ragazza (una sorprendente e ottima Greta Scarano). Un dipinto brutale e dissoluto, carico di enfasi ed epicità primitiva che sfrutta i turbolenti fatti di cronaca e una buona dose di mitizzazione dei personaggi per generare un film a metà tra un western metropolitano e un noir politico che attinge dalla tradizione del cinema tricolore del passato (e di quello di Sergio Sollima) con l’intento di donare alla pellicola un carattere ancestrale, perverso e drammaturgicamente catastrofico.
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Un parabola estremizzante dai contorni malati e ‘infernali’ in cui trovano spazio connessioni diaboliche e mortali e duelli d’onore che non ammettono alcun tipo di cedimento o debolezza e si combattono a colpi di pistola. La costruzione di Sollima fonda le sue radici sulla messa in scena trucida e violenta di una storia tutta italiana giocata sin dal principio sugli archetipi e gli schemi di un film incentrato totalmente sull’Apocalisse, sul tempo che separa i protagonisti da una disfatta irreversibile e spietata, perché non esiste redenzione più pura di quella animata dalla giustizia privata o dalla vendetta fomentata dall’orgoglio umano. Il grande pregio di Suburraè quello di riuscire a sfruttare al massimo l’artificio cinematografico per delineare a lucido, con astuzia e sapienza, un insieme di eventi concatenati e tra loro e imprescindibili, la cui meccanica ad incastro unisce alla perfezione piccoli pezzi di un puzzle che esemplifica al meglio il progetto elaborato in principio dal regista. Non è un caso che l’excursus di Sollima nel cinema di genere, in un territorio inesplorato dalla fine degli anni ’80 e affossatosi inspiegabilmente nonostante le sue indubbie qualità ‘artistiche’, rappresenti una concreta speranza di risollevare dal crepuscolo il filone noir e politico (di cui il padre Sergio era uno degli esponenti più significativi) che ha attratto e continua ad affascinare il pubblico, sempre più propenso a ricercare estrapolati di vita ‘vera’ o verosimilmente costruita.
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Il cuore pulsante della rappresentazione di Suburra sta proprio nella sua costruzione diegetica, nelle inquadrature atte ad evidenziare le espressioni, i volti e i corpi dei protagonisti ma anche i luoghi e gli spazi architettonici valorizzati da abilissimi movimenti di macchina e da leggere forzature tecniche che risultano al contempo essenziali e funzionali alle logiche del film.
Sollima Jr. è il demiurgo ‘prescelto’ del cinema ‘Made in Italy’, un cineasta completo ed eclettico (che Hollywood ci invidia) capace di trarre il massimo dalle situazioni e dagli attori, perfettamente in parte ed emotivamente coinvolti nelle loro intense interpretazioni, che vengono inseriti all’interno di ecosistemi essenziali dove ognuno ha un a posizione ben precisa e rispetta il proprio ruolo gerarchico.
E così dalle ceneri di Roma, della città eterna distrutta e flagellata da un terremoto apocalittico, Stefano Sollima è riuscito ad infondere una nuova linfa vitale al cinema di genere italiano che grazie a Suburra si prepara a risorgere, nella consapevolezza che nell’era moderna qualcosa di importante può essere ancora scritto, in onore della nostra tradizione cinematografica e della voglia infinita di raccontare storie.
Andrea Rurali
Articolo pubblicato in anteprima su CineAvatar.it
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