Il Nilo non rappresenta di gran lunga la maggior eminenza geografica, superiore anche allo stesso deserto che pure occupa l’intera superficie del paese, perché è il fiume a donare la vita ai suoi abitanti e non il deserto, soltanto per l’Egitto, come tutti sappiamo, ma bensì anche per il confinante Sudan. E’ infatti in quest’ultima nazione che si può dire “nasca” il Nilo vero e proprio, in quanto è all’altezza della capitale Khartoum che avviene la fusione tra Nilo Bianco e Nilo Azzurro, fino a quel momento due fiumi indipendenti, ed è sempre in Sudan che il Nilo riceve il suo unico affluente, l’Atbara, lungo 800 km e proveniente dall’altopiano etiope, 300 km a nord della capitale. Il Nilo Bianco, di maggior lunghezza, nasce nella regione dei grandi laghi dell’Africa centrale con sorgenti in Ruanda, mentre il Nilo Azzurro, più ricco di acque e di fertile limo, si origina dal lago Tana in Etiopia. Assieme, con una lunghezza complessiva di 6.671 km (di cui ben 3.850 in Sudan) e una portata media di 2.500 m3/s, formano il maggior fiume africano, capace di contendere anche il primato di maggiore del pianeta al sudamericano Rio delle Amazzoni; nel suo percorso attraversa sette diverse nazioni, scende un dislivello di 2.440 m e il suo bacino – tra i maggiori in assoluto – si estende per un superficie grande quanto 11 volte l’Italia, il 10 % di tutta l’Africa. Il limo depositato dalle piene annuali sui campi lungo le sue sponde ha consentito lo sviluppo di alcune delle più antiche e complesse civiltà del Mediterraneo, quella egiziana in Egitto, il regno di Kush e la civiltà meroitica in Sudan, mentre oggi come allora i contadini attendono ai loro lavori agricoli coadiuvati dagli asini, dai bufali e dai cammelli, mentre le feluche slittano silenziose sul fiume, tra una cateratta e l’altra. Il geografo Erodoto definì l’Egitto come il dono del Nilo (se avesse conosciuto il Sudan avrebbe scritto la stessa cosa) e gli Egiziani lo veneravano come il dio Hapi; oltre a dividere fisicamente le due nazioni in due parti, il fiume era considerato nell’antichità anche lo spartiacque tra l’Oriente fonte di vita e l’Occidente regno dei defunti; ma mentre in Egitto scorre dritto da sud a nord fino al delta, in Sudan dopo Khartum forma un’enorme S che allunga di non poco il percorso. Sei gole di roccia entro le quali scorre in Sudan, le cosiddette cateratte, ne rendono difficoltosa la navigazione, ma ciò non ha impedito che da sempre le sue acque costituissero, per persone e merci, una comoda via di comunicazione tra gli altopiani dell’Africa centrale e il Mediterraneo.
Curiosamente fino ai primi anni di questo secolo nessun ponte in Sudan attraversava il Nilo, se escludiamo la capitale, lungo i 1.400 km di distanza fino al confine con l’Egitto. Questo non vuol dire che gli abitanti delle due sponde non interagissero tra di loro: le persone potevano spostarsi in barca, le merci – pur con qualche difficoltà – sui ponton. E qui entra in scena uno degli elementi più romantici e caratteristici del grande fiume della Nubia, appunto il ponton, ultimo retaggio del colonialismo inglese. Si tratta, o meglio si trattava, di sgangheratissimi traghetti diesel in ferro, rappezzati in qualche modo, che dall’alba al tramonto trasportavano – carichi all’inverosimile – da una sponda all’altra persone, veicoli, merci ed animali. Lo spettacolo, soprattutto per i rari turisti, all’imbarco, durante il breve tragitto e allo sbarco, era assicurato, con un fantasmagorico spaccato di vita quotidiana da meritare mille scatti fotografici. Dalla malferma torretta del capitano-timoniere si poteva osservare l’ingegnoso sfruttamento al centimetro dello spazio a disposizione tra persone e cose, tra animali e veicoli, oppure avvistare qualche coccodrillo. Ma queste chiatte avevano più di un difetto: spesso non funzionavano per guasti, secche o eccessive piene, non c’erano orari e a volte le attese si prolungavano anche per ore, i luoghi di imbarco cambiavano in continuazione, il costo per i locali era elevato, e poi ogni tanto qualcuno o qualcosa finiva in acqua, per la gioia dei famelici coccodrilli. In una delle nazioni più povere ed arretrate in assoluto l’assenza di ponti non deve meravigliare più di tanto. Con una superficie grande sei volte l’Italia, oggi il Sudan possiede in tutto 5.000 km di strade asfaltate (la più vecchia risalente al 1962) e sappiamo che strada chiede ponte, così come il ponte deve servire ad una strada. Ma, grazie ai proventi del petrolio, nell’ultimo decennio le cose stanno cambiando sensibilmente: eserciti di operai cinesi hanno costruito nuove importanti arterie anche in mezzo al deserto e proprio di recente è stato inaugurato a Debba il quinto ponte sul Nilo (gli altri sono a Shendi, Atbara, Karima e Dongola) e si può scommettere che altri ne seguiranno a breve. A beneficiarne sono stati la mobilità e i trasporti, compresi quelli turistici, in costante crescita anche perché si tratta ormai dell’unica porzione di Sahara accessibile in quanto non interessato da guerre, atti di banditismo e tensioni politiche. I viaggiatori romantici rimpiangeranno forse il fascino demodè dei ponton, ormai mandati in pensione, con le annesse scene di transumanza biblica, ma tutti gli altri apprezzano la nuova possibilità di spostarsi celermente da un punto all’altro del paese, da un monumento all’altro. Tanto, se si cerca l’avventura, basta uscire dall’asfalto e inoltrarsi in uno dei vari deserti: in Nubia, nella terra dei faraoni neri, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Specialista da trent’anni per i viaggi archeologici e le spedizioni nel deserto sudanese è l’operatore milanese “I Viaggi di Maurizio Levi”, che in Nubia dispone di una propria organizzazione ricettiva, con le uniche strutture alberghiere di impronta europea, il campo tendato fisso di Meroe e la rest-house di Karima.
Giulio Badini