Quando il cinema di finzione si occupa di riproporre
definiti momenti storici e specifiche problematiche ad essi legate esistono normalmente
due soluzioni che vengono adottate: mettere la storia al servizio del
personaggio – così com’è successo nel recente “Trumbo” – oppure effettuare un
procedimento diametralmente opposto e mettere i personaggi al servizio della
storia, proprio come nel caso di “Suffragette”, nel quale vengono riprese le
dinamiche che nei primi anni del secolo scorso hanno portato le donne inglesi verso
il diritto di voto.
La regista Sarah Gravon, dunque, si ritrova a dover affrontare una tematica assai complessa, non solo perché i processi storico-sociali che riguardano l’emancipazione femminile necessitano di un’analisi accurata ma anche perché gli stessi sono ancora legati a problematiche che nella società contemporanea si presentano sotto un aspetto certamente meno evidente ma non per questo meno pericoloso. Purtroppo nel film tutto questo viene ridimensionato a causa dell’eccessiva veemenza ideologica che prende il sopravvento su tutti gli aspetti della pellicola e arrecando a quest’ultima una serie infinita di difetti quali, ad esempio, la piattezza e/o prevedibilità dei personaggi, il più totale anonimato della regia e uno script a tratti didascalico e a tratti mutilo.
Appare preoccupante come il motore dei difetti del film sia un approccio enfatico e incurante della necessità di analisi richiesta dall’argomento in questione, conducendo verso un manicheismo – basti notare che i personaggi positivi sono esclusivamente le donne mentre gli antagonisti sono tutti caratteri maschili – che definire auto-referenziale sarebbe riduttivo. Tutto questo mentre l’evoluzione sottocutanea/neo-liberista compiuta dalla società patriarcale agisce indisturbata sotto gli occhi di chi è troppo impegnato ad alzare inutili polveroni che offuscano la vista e impediscono di osservare la realtà dei fatti. Antonio Romagnoli
