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Il disco popolare dell’anno, quello di cui parlano tutti. Sufjan Stevens sta provocando un frastuono sul web paragonabile solo a quello generato l’anno scorso dal nuovo Damien Rice (che, per inciso, lo valeva tutto). Così, mentre dopo il successo del dimenticabile Illinoise avevo già archiviato questo ex enfant prodige del Michigan fosse come una promessa mancata, mi sono dovuto ricredere ed addirittura investirci un paio di biglietti da 10, allo scopo di raccontarvi se ne valga la pena.
Ho letto una recensione che scomoda addirittura paragoni con Dylan (e va beh, è normale che serva da unità di misura), ma anche con Shakespeare o con, in subordine, Dante. Dante? Rossetti? Alighieri? Dovrò procurarmi i suoi dischi.
Al netto, com’è il lavoro per cui sono tutti pazzi? Perfettamente orecchiabile ma abbastanza hip da poter essere considerato importante. Come Simon & Garfunkel, ma senza Simon a scrivere le canzoni e Garfunkel a cantarle. Proprio come S&G è lieve e cantabile, ma il trucco è che i temi sono invece di quelli tosti. Sufjan canta in modo leggero e apparentemente infantile delle canzoni che si rivelano una vera seduta psicanalitica sul suo rapporto con la madre, l’hippie che gli ha dato un nome davvero curioso per un ragazzo di Detroit, che a quanto pare era schizofrenica, drogata e l’ha abbandonato una quantità di volte a partire da quando lui aveva un anno. Insomma, un po’ come la nenia infantile di Profondo Rosso, con l'inquietante mamma rivelata dal riflesso nello specchio.
Mentre le canzoni, tutte belle, proseguono, e Sufjan rievoca una gita infantile in un giorno felice con la madre ed il patrigno, si alza una sorta di nebbia impalpabile, degli echi sonori, una cupa, immobile tristezza che trasforma le melodie spensierate in un funereo nirvana.
Ho provato a resistergli, ma ogni resistenza è futile: Carrie & Lowell è un disco davvero bello. Da comprare.
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