SEARCHING FOR SUGAR MAN (Svezia/Uk 2012)
Che probabilità aveva, a fine anni Sessanta, un cantautore di origine ispanica di sfondare nel music business in una città come Detroit? Riformulo la domanda: aveva forse qualche possibilità di successo un tizio chiamato Sixto Rodriguez che suonava fuori tempo massimo una musica alla Bob Dylan nella città del soul e del garage rock? No, esatto, nessuna probabilità. E infatti, dopo due dischi, quest’uomo timido, umile, che cantava di droga e della classe operaia, scomparve nel nulla. Salvo, negli anni, ottenere un grandissimo successo in Sudafrica, di cui rimase all’oscuro fino al 1998.
È da almeno 40 anni che, in ambito musicale, artisti un tempo sconosciuti vengono in qualche modo recuperati e portati a una spesso meritata gloria (si pensi ai tanti bluesmen riemersi dall’oblio negli anni Sessanta, specialmente in Inghilterra). Ma è la prima volta, forse, che una simile operazione viene raccontata in un documentario così bello e ambizioso, ed è anche la prima volta che è proprio il film a contribuire al rilancio del musicista in questione. Certo, come si è detto Rodriguez è già da 15 anni una star di prima grandezza in Sudafrica (e pure in Australia, fatto che nel film viene omesso, forse per dare un maggiore rilievo all’esplosione di popolarità africana), ma nel resto del mondo e persino nella natia America è rimasto fino ad oggi pressoché sconosciuto. E allora viva Sugar Man, diretto da Malik Bendjelloul e vincitore pochi mesi fa del premio Oscar come miglior documentario dell’anno. Un film che – oltre a restituirci un cantautore che non sarà il genio assoluto descritto da molti degli intervistati ma è comunque un pezzo da novanta: ascoltare per credere – è capace di descrivere in maniera estremamente efficace (anche se, per evidenti esigenze narrative, un po’ artificiosa) una delle storie più incredibili della musica del Novecento.
American dream al contrario (o conferma dell’antico adagio nemo propheta in patria), la vicenda di Rodriguez è talmente improbabile, così perfetta nel suo andamento da favola della buona notte (… e tutti vissero felici e contenti) da sembrare quasi finta, ennesimo mockumentary à la Spinal Tap. Ma invece, come talvolta accade, in questo caso la realtà sembra aver decisamente superato la fantasia.
Consigliatissima, ovviamente, la colonna sonora. E magari anche un viaggio in Michigan, a trovare quest’uomo dalla disarmante semplicità che vive ancora nella stessa, umilssima casa degli anni dell’oblio.
Alberto Gallo