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Sui fantasmi della Guerra Fredda in Corea

Creato il 27 agosto 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
The Tower of Juche Idea statue in central Pyongyang by Martyn Williams

The Tower of Juche Idea statue in central Pyongyang by Martyn Williams

di Michele Marsonet. Ci risiamo con lo stato di “quasi-guerra” tra le due Coree. Non è certo una grande novità, dal momento che scaramucce e vere e proprie battaglie si sono susseguite lungo il confine del 38° parallelo dal primo dopoguerra sino ai nostri giorni, in pratica senza soluzione di continuità.


Questa volta si parla di “guerra degli altoparlanti”, anche se in realtà sono entrati in scena razzi e cannoni. L’esercito nordista ha lanciato un missile poco oltre la zona demilitarizzata. Sono poi seguiti nutriti scambi di artiglieria e i nordisti hanno colpito gli altoparlanti mediante i quali i sudcoreani hanno ripreso a trasmettere slogan e musica contro il regime di Pyongyang.
Come dicevo innanzi, non è certo la prima volta che episodi simili accadono lungo una linea di confine tra le più calde del mondo. E mette pure conto osservare che – almeno finora – essi non sono mai stati seguiti da una guerra vera. Più volte minacciato da entrambe le parti, un nuovo conflitto è stato evitato dai due contendenti con accordi raggiunti in extremis. E infatti, anche in questa occasione, i bollori si sono spenti in fretta.

Più che sui fatti specifici, vale allora la pena di riflettere sulla storia  coreana e sui motivi che hanno condotto all’attuale situazione. Innanzitutto notiamo che il 38° parallelo è un confine del tutto artificiale. La Corea infatti, dal punto di vista geografico, storico e culturale è una nazione unica. Nord e Sud hanno in comune lingua, tradizioni e, per l’appunto, la storia (con l’eccezione degli ultimi 70 anni). La stessa situazione, insomma, della Germania prima della riunificazione e del Vietnam prima della vittoria dei comunisti di Ho Chi Minh sugli americani e i loro alleati di Saigon.

Ci sono stati inoltre, ben antecedenti all’era cristiana, dei regni indipendenti e poi un impero coreano in grado di farsi rispettare dai potenti vicini, cinesi in primo luogo e anche giapponesi. Come avvenne in tutte le nazioni di quell’area l’influenza culturale cinese segnò in profondità la Corea, e le sue tracce sono ben visibili ancor oggi. Il vero punto di rottura si ebbe nel 1905, quando un Giappone allora in piena fase espansiva costrinse i governanti locali a firmare un trattato capestro che, di fatto, fece della penisola coreana un protettorato nipponico. Con un secondo trattato (1910) quest’ultima fu direttamente annessa all’Impero del Sol Levante, anche se i giapponesi non riuscirono mai a sradicare la lingua e la cultura nazionali.
Il resto è noto. Dopo la catastrofica sconfitta subita dal Giappone, nel 1945 la penisola fu artificialmente divisa in due tronconi, sotto l’influenza sovietica il Nord e sotto quella USA il Sud. Il mondo di quei tempi non esiste più da un bel pezzo. Eppure, in Corea, le ombre di Stalin, Truman e Eisenhower sembrano vivere ancora. Si respira tuttora l’atmosfera di una Guerra Fredda che appartiene ormai ai libri di storia, e che è stata sostituita da una conflittualità permanente in cui non è sempre chiaro quali siano i veri contendenti in lizza.

La Corea del Nord (o Repubblica Popolare Democratica di Corea) è indubbiamente interessante per gli analisti politici, giacché costituisce un “case study” unico nel suo genere. E’ come se là il tempo si fosse fermato all’immediato dopoguerra, con i piani quinquennali, la coreografia tipica del periodo in cui Stalin era in vita e un fortissimo culto della personalità tutto incentrato sul leader di turno. Ma l’unicità è data anche dal fatto che, sin dalla fondazione (1948), il potere è nelle mani di una sola famiglia e viene trasmesso da padre in figlio senza alcuna soluzione di continuità. Si tratta dei Kim che, mantenendo il controllo completo del partito e delle forze armate, continuano a governare nonostante le ricorrenti voci di ribellioni (impossibili da verificare poiché il Paese è in pratica sigillato nei suoi confini). Da alcuni la RPDC viene considerata uno Stato comunista puro, anche se la successione per via dinastica induce a nutrire seri dubbi al riguardo.

Dal canto suo la Corea del Sud (o Repubblica di Corea) è diventata un gigante economico, una delle cosiddette “tigri asiatiche”. E’ la quarta economia in Asia (dopo Cina, Giappone e India) e la quindicesima nel mondo, con un Pil sinora in crescita e un notevole apparato industriale, soprattutto nei comparti dell’hi-tech e dell’automobile. Sul piano militare, pur possedendo forze armate molto ben equipaggiate, si basa in sostanza sullo scudo fornito dagli Stati Uniti che, tra l’altro, mantengono truppe sul suo territorio, anche nelle vicinanze del 38° parallelo.

Allo stato dei fatti è impossibile prevedere se – e quando – i due Paesi potranno giungere a stabilire normali rapporti. I tentativi ci sono stati, tant’è vero che esiste il distretto industriale congiunto di Kaesong nel quale operai del Nord e del Sud lavorano assieme. Tuttavia la distanza tra le due “mezze nazioni” resta abissale, accentuata anche dalla pressoché totale impermeabilità di Pyongyang verso l’esterno.

All’ultimo erede della dinastia, Kim Jong-un, figlio di  Kim Jong-il e nipote del fondatore dello Stato Kim Il-sung, vennero all’inizio accreditati intenti  di apertura, in seguito smentiti dai suoi comportamenti concreti. E, per la verità, la volontà di dialogo non sembra alta neppure a Seul. A meno di eventi drammatici e imprevedibili, il mondo è dunque destinato a convivere per un bel po’ con questo residuo anacronistico della Guerra Fredda.


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