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Sui fondamenti della logica formale (Seconda parte)

Creato il 07 dicembre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

451px-Schlick_sittingdi Michele Marsonet (continua dalla prima parte). Per concludere il discorso iniziato nel precedente articolo, intendo svolgere alcune riflessioni di carattere generale che mettano in grado il lettore di meglio comprendere quanto è stato detto. Comincio allora col notare che la logica formale (o “matematica”) contemporanea si è sviluppata come logica “della matematica”. Tuttavia, i rapporti tra logica e filosofia in generale, e tra la logica e i vari sotto-settori del sapere filosofico (metafisica, ontologia, etica, gnoseologia, etc.) non possono certamente essere trascurati, se è vero che i rapporti tra logica e filosofia sono sempre stati molto stretti fin dall’antichità greca. Non si può allora fare a meno di notare che la logica formale ha trovato nel secolo scotso l’ambiente di coltura ideale nel neopositivismo logico e nella più vasta tradizione analitica. E’ proprio in quell’ambito che essa è cresciuta sino a conseguire lo status di disciplina autonoma, tanto da far sorgere il sospetto che i suoi antichi legami con la filosofia si siano ormai irrimediabilmente allentati.

Le ragioni che spiegano tale situazione sono in sostanza riconducibili proprio ai presupposti di base su cui si reggeva il neopositivismo logico. Assumendo – al pari dei positivisti del secolo scorso – la scienza quale punto di riferimento imprescindibile, i neopositivisti insistevano sul fatto che anche la filosofia deve proporsi di raggiungere criteri di scientificità e di esattezza, e in questo senso essi, rispetto ai loro predecessori dell’800, attribuirono un ruolo fondamentale alla logica formale (di qui l’aggiunta dell’aggettivo logico al termine “positivismo”). Vennero quindi valorizzate le tecniche della moderna logica matematica elaborate da Gottlob Frege, e poi da Bertrand Russell e Alfred N. Whitehead negli anni a cavallo tra ’800 e ’900 nella loro fondamentale opera “Principia Mathematica”. Tali tecniche erano rivolte alla creazione di linguaggi artificiali in grado di eliminare le ambiguità presenti nel nostro linguaggio quotidiano. L’uso di simili tecniche era, alle origini del positivismo logico, legato a un ambizioso programma di rifondazione dell’intera conoscenza su basi puramente empiriche, programma che ci si proponeva di realizzare mediante la costruzione di un linguaggio unificato di tutta la scienza (il che significava, in sintesi, “ridurre” ogni disciplina scientifica al modello della fisica).

In altre parole, era opinione dei positivisti logici che la scienza moderna avesse occupato l’intero campo della conoscenza, ivi inclusi quegli spazi che, tradizionalmente, venivano riservati alla filosofia. Lo spirito scientifico andava pertanto trasferito senza esitazioni in ambito filosofico e, a questo proposito, il caposcuola Moritz Schlick – che fu in seguito assassinato da uno studente filo-nazista all’università di Vienna – affermò che un filosofo che conoscesse soltanto la filosofia non era in grado di svolgere in modo ottimale il proprio lavoro. Con ciò intendeva dire che il filosofo deve essere esperto di almeno una disciplina scientifica se vuole pronunciare dei discorsi dotati di senso. Solo nella scienza si dà vera conoscenza, e le asserzioni della filosofia (intesa in primo luogo come metafisica) altro non sono che enunciati privi di significato.

Dunque, tutto ciò che può dirsi chiaramente è formulabile nel discorso della logica formale. Le tecniche di questa disciplina, inoltre, consentono di realizzare in filosofia un “principio di economia”, volto a ridurre al minimo indispensabile gli impegni ontologici e gnoseologici, eliminando al contempo la possibilità dell’errore e la costante presenza di ambiguità e confusioni nel linguaggio quotidiano. A questa concezione astratta e fondazionalista della logica la corrente pragmatista, ad opera soprattutto di pensatori come John Dewey e C.I. Lewis, oppose una visione diversa della logica stessa, considerandola alla stregua di strumento per la ricerca e non di obiettivo da perseguire di per sé.

Gli obiettivi polemici di Dewey in quanto cultore di logica sono l’atomismo logico-psicologico e il dualismo kantiano. Il filosofo americano denunciavainfatti l’astrattezza e l’irrealtà del carattere frammentario dell’esperienza umana che costituisce l’eredità negativa dell’empirismo e che, a suo avviso, finisce col rafforzare il classico dualismo di Kant. Ora, non v’è dubbio a suo avviso che esista una stretta interrelazione fra gli sviluppi della moderna logica formale e la presupposizione di “atomi” di esperienza, o dati elementari, che devono a loro volta essere tradotti in “proposizioni atomiche”. Un’altra e parallela tendenza della logica contemporanea è – sempre secondo Dewey – quella di dar luogo a calcoli che risultano così lontani dagli ambiti di conoscenza cui possono servire da dare spesso l’impressione della costruzione tecnica più o meno gratuita. Ad ogni modo, la logica così intesa riguarda, a suo avviso, più la sistemazione di ciò che già si conosce che la conoscenza del nuovo, o almeno non ha quell’importanza per la conoscenza del nuovo – e cioè per l’indagine vera e propria – che a Dewey sta cuore. Ne consegue che i calcoli logici intesi nel senso anzidetto servono a poco. E, in particolare, non servono quando si tenta di sottoporre le vicende umane a trattamento scientifico.

Per Dewey, la dimensione logica costituisce pertanto un’espressione organica della dimensione pratica, nel senso che logica da un lato e prassi dall’altro non possono essere artificialmente scisse: l’unica logica valida è quella che funziona praticamente. Egli voleva evitare la difficoltà di far incontrare una “materia” empirica e una “forma” razionale scisse “ab initio”: a suo parere, nessuna “sintesi” può riunire cose incompatibili. Intendeva così eliminare l’immediato, il fatto puro, il meramente sensoriale dal campo della ricerca. Il suo “modello dell’indagine” si inserisce in un quadro di evoluzione biologica e sociale: esso costituisce null’altro che un’articolazione, che è resa possibile dalle capacità del linguaggio e delle transazioni vitali che necessariamente esistono fra ogni individuo biologico e l’ambiente in cui vive.

In realtà, la logica standard è basata su alcune assunzioni ontologiche forti, vale a dire: (1) esiste un dominio di oggetti chiaramente identificabili, e (2) esistono delle relazioni fisse tra essi. Fino a che punto, tuttavia, i termini (a) “esistenza” e (b) “realtà” possano essere identificati? Se partiamo dall’assunto che una distinzione tra essi sia legittima, possiamo dire che (a) equivale ad “apparenza”, mentre (b) equivale alla realtà in quanto tale. Questa è la strategia seguita da idealisti come Bradley. Se invece seguiamo il sentiero kantiano, abbiamo che (a) corrisponde agli “oggetti esperibili” (fenomeni), mentre (b) corrisponde alle “cose-in-sé” (noumeni). Si potrebbe obiettare che una distinzione di questo tipo conduce ad affermare che non possiamo dire alcunché di significante a proposito del mondo in sé, inteso come realtà indipendente dalle indagini che noi svolgiamo su di essa. Tuttavia, questo mondo è anche ambiente solo nella misura in cui ha a che fare, direttamente o indirettamente, con le funzioni vitali dell’organismo. In ogni caso, si può dire ben poco circa le cose prima che esse entrino, per così dire, nel raggio d’azione della nostra indagine.

E’ opportuno notare che chi afferma che non possiamo dire molto circa la realtà in sé, non è affatto costretto a negare che vi sia un mondo indipendente dalla nostra esperienza. Per esempio, è legittimo sostenere che v’è stato un tempo in cui non c’erano soggetti conoscenti che esperissero il mondo, e la storia naturale ci insegna proprio questo. In termini kantiani, si potrebbe anche dire che c’è un mondo indipendente dalla nostra attività sensoriale e dai particolari modi in cui essa si esplica. Ma occorre fare attenzione, perché il problema è molto complesso. Se parliamo di organismi e di ambiente, e di interazioni tra quest’ultimo e gli organismi, stiamo parlando di certi aspetti della realtà che si collocano al di fuori dei contenuti e dei risultati delle indagini messe in essere dai soggetti conoscenti.

Tuttavia, è altrettanto chiaro che, per fare questo, dobbiamo pur delineare una qualche cornice concettuale in base a cui la formulazione di una teoria dell’indagine risulti possibile. In altri termini, il tempo in cui non c’erano soggetti conoscenti possiamo solo immaginarlo e ricostruirlo in base a una cornice in cui i soggetti conoscenti stessi sono presenti. E’ la nostra indagine che ci consente di fare questo, ed è il ricorso alla dimensione della “possibilità” che ci fornisce la chiave per procedere su questa strada. Il tempo in cui i soggetti conoscenti non c’erano può essere immaginato e ricostruito soltanto in riferimento a un tempo in cui tali soggetti ci sono. Quel tempo è pur sempre visto attraverso gli occhi della mente, ed è lo schema concettuale che noi abbiamo ora a permetterci di formulare ipotesi e giudizi al riguardo.

Tutto ciò ha degli effetti decisivi sulla concezione della logica. In altre parole: l’esperienza gioca o no un ruolo anche nella formulazione delle leggi logiche? Il contrasto dunque divide chi ritiene che dal fattore-esperienza non si possa comunque prescindere, e coloro i quali invece sostengono che l’esperienza si colloca al di fuori degli interessi propriamente logici.

Si può concordare sul fatto che la nostra esperienza del mondo è tale che consiste di oggetti che hanno proprietà e stanno in relazione tra loro. Tuttavia, il modo in cui il mondo si manifesta al soggetto dipende, a sua volta, dalla prospettiva operativa che il soggetto ha nel mondo. Con ciò si potrebbe anche dire che oggetti, proprietà, relazioni, etc., che svolgono in logica un ruolo primario (particolarmente a livello semantico, e cioè nell’interpretare un linguaggio e nello stabilire condizioni di verità per gli enunciati), dovrebbero essere trattati come elementi della nostra esperienza. Questo significa che essi sono, a un tempo, prodotti e strumenti dell’attività conoscitiva, e non dovrebbero invece essere visti come indipendenti dalla – e precedenti alla – ricerca stessa.

Dunque, la costruzione di una cornice concettuale precede comunque l’elaborazione di qualsiasi teoria semantica. Il punto è stabilire dove termina la costruzione della cornice e comincia la logica propriamente detta. Se prendiamo in considerazione la disputa che nei tardi anni ’30 oppose Bertrand Russell a John Dewey, possiamo notare che, secondo Russell, dobbiamo essere in grado di fare certe assunzioni sul mondo indipendentemente dalla nostra esperienza di esso. Per Russell il mondo è diviso in oggetti che hanno proprietà e stanno in relazioni reciproche: dobbiamo soltanto aprire i nostri occhi per notare tali fatti. Questi fatti, a loro volta, non sono prodotti dell’esperienza. E’ piuttosto la nostra esperienza a essere ancorata ai fatti: una proposizione è vera se esprime un fatto, ed è falsa altrimenti. Ne consegue che la logica è lo studio degli aspetti formali dei sistemi linguistici.

Dewey rispose che una simile strategia non copre affatto l’intero ambito di competenza della logica. Se si adotta una visione come quella di Russell, si abbraccia quella che il filosofo americano definiva la “teoria della conoscenza da spettatori”. Secondo tale visione, possiamo dire come il mondo realmente è indipendentemente dalla nostra partecipazione a esso. Si assume, cioè, che vi sia un mondo “pieno di fatti” senza chiederci come entriamo in contatto con essi nella nostra esperienza, scegliendo di concentrare l’attenzione sullo studio astratto di sistemi linguistici artificiali. Russell, in altri termini, presupponeva che noi si sia in grado di entrare in contatto immediatamente con le cose “prestando loro attenzione”, ottenendo una conoscenza di base e irrefutabile dei fatti stessi. Ciò, tuttavia, significava secondo Dewey ignorare il carattere interattivo del nostro “prestare attenzione” alle cose.

Come già ho accennato in precedenza, la fisica classica newtoniana dava per scontato un netto distacco tra osservatore da un lato e oggetto osservato dall’altro. La scienza attuale, e in particolar modo la meccanica quantistica, revocano in dubbio proprio questo presupposto. Dalla scienza stessa, dunque, prima ancora che dalla filosofia, viene la smentita di questo quadro russelliano così semplice (perché così intuitivo). Gli schemi concettuali, a questo riguardo, possono essere concepiti proprio come prospettive operative nei confronti del mondo, e sono quindi simili a cornici di riferimento che “guidano” le nostre azioni.

Nella misura in cui una proposizione contiene un riferimento almeno implicito alla prospettiva operativa impiegata per formularla, non c’è modo di ottenere, per così dire, un fatto “più fattuale” di questo. Non possiamo descrivere la realtà più concretamente di così, anche se possiamo descriverla in modo via via più accurato. Non v’è motivo di ritenere che non si descrivano le cose come realmente sono perché le descriviamo adottando la prospettiva di un certo schema concettuale. Non c’è altro modo di farlo ora, e non c’è mai stato in passato. E’ il nostro rapporto con il mondo, che è un’interrelazione organismo/ambiente, a dettare questi limiti. In altri termini, non possiamo trascendere la prospettiva mediante la quale entriamo in contatto con il mondo, e non possiamo “staccarci” dal mondo per guardarlo da una prospettiva esterna ad esso. Noto quindi, a mo’ di conclusione, che il problema dei fondamenti filosofici della logica formale contemporanea è assai più complesso di quanto comunemente si creda.

Artwork, Moritz Schlick around 1930

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