Non si è ancora spento il clamore delle manifestazioni anti-putiniane del dicembre scorso, osannate dalla nostra opinione pubblica liberal-progressista, e già emerge una nuova “rivoluzione democratica” da sostenere contro il nuovo nemico, questa volta situato nel cuore della vecchia Mitteleuropa e della “Nuova Europa” post-comunista, l’Ungheria del premier conservatore Viktor Orbàn.
Non c’è giorno che passi che non escano su quotidiani come “la Repubblica”, “Corriere della Sera”, “La Stampa”, “l’Unità” o “il Fatto Quotidiano” articoli a tinte fosche sull’Ungheria neo-nazionalista e autoritaria, che a detta dei commentatori nostrani starebbe ri-precipitando ai tempi del regime conservatore filo-fascista dell’Ammiraglio Horty o delle Croci Frecciate (il movimento nazional-socialista magiaro che governò negli ultimi mesi di guerra).
Si tirano in ballo il passato di fedele alleato nazista dell’Ungheria, come se il Terzo Reich non avesse trovato entusiastici sostenitori in tutta Europa, l’ “antisemitismo magiaro” e persino le origini uralo-altaiche, e quindi euroasiatiche e non del tutto “occidentali”, degli ungheresi per colpire con “geometrica potenza” il governo di Orbàn, definito oramai senza mezzi termini come un “regime”.
Ma quale sarebbero i “crimini” di Viktor Orbàn, già giovane promessa dell’euro-atlantismo ungherese e ora guardato proprio da Washington e Bruxelles come una sorta di Gheddafi mitteleuropeo?
I giornali liberal-progressisti nostrani stigmatizzano i contenuti nazionalisti conservatori presenti nella nuova costituzione, che fa appello a Dio, al Cristianesimo e alla Nazione ungherese, ma soprattutto alcune mosse giudicate potenzialmente totalitarie come l’aver messo sotto controllo governativo la Banca Centrale Ungherese, cosa che dovrebbe essere scontata, o l’aver promulgato una legge (chiamata “legge bavaglio” come la ben più blanda legge sulle pubblicazioni delle intercettazioni voluta da Berlusconi) che punisce i media qualora mettano in pericolo la stabilità e l’indipendenza nazionale.
La demonizzazione del governo di centrodestra di Orbàn, una coalizione fra il suo partito Fidesz-Unione Civica (una sorta di PdL magiaro) e il più piccolo Partito Popolare Cristiano-Democratico, è facilitata presso la poco informata e sempre più superficiale opinione pubblica italiana dal fatto che in Ungheria esista un partito ultranazionalista di destra radicale, il Jobbik, ben rappresentato in parlamento e che, alle ultime elezioni del 2010 (quelle che diedero allo schieramento di Orbàn un impressionante 60%), è emerso come la terza forza politica nazionale, appena sotto agli screditati socialisti.
Il fatto che Jobbik sia all’opposizione e non abbia votato le misure del governo non turba più di tanto i nostri giornali, che parlano del governo Orbàn come di un governo di “ultradestra” (“Ungheria, schiaffo dell’ultradestra a Usa e Ue” di Andrea Tarquini su “la Repubblica” del 31 dicembre 2011).
Queste misure blandamente sovraniste non hanno comunque mancato di provocare la costernazione di Bruxelles e in particolare degli Stati Uniti, che per voce del Segretario di stato Hilary Clinton hanno già espresso la loro “preoccupazione” per l’anomalia magiara, mentre il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea minacciano di rivedere tutti i programmi di assistenza all’economia ungherese, già colpita pesantemente dalla crisi.
Che Washington, e molto probabilmente altri ambienti europei al seguito, non si limiti a esprimere indignazione ma si stia preparando a replicare uno scenario da “rivoluzione colorata” anche a Budapest (come in Georgia e Ucraina qualche anno fa e come si sta cercando di fare in Russia) sembra essere confermato da quanto riportato da un articolo de “la Repubblica” del 4 gennaio, a firma del succitato Andrea Tarquini (“Gli indignati di Budapest”), secondo il quale l’ex ambasciatore americano Palmer, che prestò servizio in Ungheria proprio nei cruciali anni del crollo del comunismo, avrebbe addirittura proposto di riattivare contro il governo di Budapest la famosa Radio Europa Libera, l’emittente che durante la guerra fredda trasmetteva propaganda filo-occidentale nei paesi del blocco socialista.
È degno di nota anche il fatto che alle manifestazioni contro Orbàn siano apparse bandiere e striscioni di un’organizzazione chiamata “Szolidaritàs” il cui nome e il cui logo grafico rimandano direttamente all’omonima organizzazione sindacale polacca (che fu una “co-produzione” vaticano-americana con il generoso apporto di quadri trozkisti ed elementi sionisti).
Il fatto che vengano riesumate sigle ed esperienze legate alla lotta antisovietica degli anni della guerra fredda contro un politico come Viktor Orbàn, che vanta un passato di giovanissimo oppositore al regime socialista e che durante la sua passata legislatura di un decennio fa (1998-2002) si era distinto per un entusiastico allineamento a posizioni euro-atlantiche, è sintomatico dell’evoluzione degli scenari politici europei e mondiali.
Ora a Budapest è il Partito Socialista, formato dagli eredi rinnegati del Partito Socialista Ungherese dei Lavoratori dei tempi di Rakosi e Kadar, a sfilare sotto le insegne di “Szolidaritàs/Solidarnosc”, o addirittura con cartelloni che paragonano l’anticomunista Orbàn al defunto leader comunista Kadar, e a invocare l’ “aiuto fraterno” non più dei carri armati sovietici ma degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.
Questo apparente paradosso non è del tutto incomprensibile se guardiamo alla situazione italiana, dove gli eredi del Partito Comunista, trasformatosi in PDS, DS e infine PD, hanno senza sosta imputato a Berlusconi, oltre all’incontenibile satirismo, gli eccessivi legami con la Russia di Putin che allontanavano il paese dal vincolo con gli USA (piccola digressione storica: forse non è un caso se l’ “eurocomunismo” berlingueriano, un sostanziale cedimento all’atlantismo mascherato da strategia politica, avesse ricevuto un certo credito oltrecortina proprio presso gli ungheresi) .
Similmente al caso italiano anche la geopolitica energetica potrebbe aver contribuito a screditare agli occhi degli USA e degli ambienti euro-atlantici il premier magiaro che, negli ultimi anni, aveva dimostrato interesse verso progetti energetici a partecipazione e guida russa, come il gasdotto South Stream, con un’inversione di rotta rispetto alla precedente politica di aperto appoggio al rivale progetto Nabucco, sponsorizzato da americani ed euro-atlantisti.
Viste le difficoltà e le tensioni politiche che attraversano la Russia è difficile che il governo Orbàn riesca in questo momento a trovare una solida sponda ad est, e non è anzi da escludere, anche se non vogliamo essere profeti di sventura, che in Ungheria si ripetano scenari “all’italiana”, con un Governo ancora dotato di maggioranza politica, e quella ungherese è schiacciante, costretto da indicatori finanziari in caduta (o in impennata) libera a farsi da parte a favore di “tecnici”.
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Per una più approfondita analisi dello scenario ungherese è opportuna una sintetica nota sulle posizioni di due partiti di opposizione al governo ma non allineati con la piazza “rivoluzionaria”: il partito di destra nazionalista “Jobbik-Movimento per un’Ungheria Migliore” e il piccolo ed extra-parlamentare “Munkaspart-Partito Comunista dei Lavoratori Ungheresi”.
Per quanto riguarda il partito Jobbik, che alle ultime elezioni si è piazzato al terzo posto con il 16,7% dei voti sfiorando i socialisti, si tratta di un movimento apertamente etno-nazionalista sorto da una scissione di giovani “innovatori” del partito “MIEP-Movimento Giustizia e Vita”, ora quasi scomparso e ridotto a piccola formazione di nostalgici della “Grande Ungheria”. L’elemento interessante di Jobbik, oltre alla tradizionale battaglia nazionalista per i diritti delle consistenti minoranze ungheresi in Romania, Slovacchia, Serbia e Ucraina, è i suo particolare progetto geopolitico, alternativo tanto all’atlantismo che al tradizionale eurocentrismo dei partiti della destra nazionalista europea, che mette in primo piano i rapporti con paesi come la Russia (nonostante i ricordi dell’occupazione sovietica), la Cina e il Giappone e che soprattutto propone, in nome della fratellanza etno-linguistica turanica (il magiaro è una lingua uralo-altaica come le lingue turco-mongole), un avvicinamento dell’Ungheria, il paese dei “discendenti i Attila”, alla Turchia e ai paesi dell’Asia Centrale turcofona. Il partito ungherese quindi, unico fra i partiti nazionalisti europei, è portatore di una visione del mondo per alcuni versi paragonabile a quella dell’Eurasismo russo.
Nel versante opposto dello schieramento politico si trovano i comunisti del Munkaspart, formato da quella frangia minoritaria del vecchio Patito Socialista Operaio Ungherese che non ha voluto seguire l’evoluzione (o involuzione) liberal-socialista degli attuali Socialiti magiari.
Il Munkaspart sostiene posizioni simili a quelle dei Comunisti russi di Zyuganov, è apertamente e radicalmente antiatlantico e antisionista e si dichiara vicino alla Bielorussia di Lukashenko, alla Corea del Nord e a quanto resta del nazionalismo arabo socialista.
Nonostante si tratti di un partitino extraparlamentare e nonostante la sua retorica marxista-leninista non lo renda certo appetibile ad un’opinione pubblica come quella ungherese si deve al Munkasprt un’interessante analisi dell’attuale crisi politica; secondo un loro comunicato (diffuso e tradotto dal sito Aurora : http://aurorasito.wordpress.com/2012/01/05/che-cosa-sta-realmente-succedendo-in-ungheria/ ) infatti lo scontro fra Orbàn e l’opposizione liberal-socialista non è fra “dittatura” e “democrazia”, ma fra due fazioni del sistema liberal-capitalistico che dal 1989 domina l’Ungheria: quella conservatrice impersonata da Orbàn e legata alla Germania e quella liberal-socialista al traino invece di Stati Uniti e Israele (non si tratta qui di complottismo ma dell’effettivo e consistente peso nell’ultimo venten