“La produzione in generale è un’astrazione ma un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia questo generale, ossia l’elemento comune astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso un qualcosa di complessamente articolato che si dirama in differenti determinazioni. Di queste alcune appartengono a tutte le epoche; altre sono comuni solo ad alcune. Certe determinazioni saranno comuni all’epoca più moderna come alla più antica. E senza di esse sarà inconcepibile qualsiasi produzione; ma, se le lingue più sviluppate hanno leggi e determinazioni comuni con quelle meno sviluppate, appunto ciò che costituisce il loro sviluppo le differenzia da questo elemento generale. Le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono venire isolate in modo che per l’unità – che deriva già dal fatto che il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sono gli stessi – non vada poi dimenticata la differenza essenziale [corsivo mio]. In questa dimenticanza consiste, per esempio, tutta la saggezza degli economisti moderni che dimostrano l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti. Essi spiegano ad esempio che nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, non fosse altro questo strumento che la mano; né senza lavoro passato e accumulato, non fosse altro questo lavoro che l’abilità riunita e concentrata per reiterato esercizio nella mano del selvaggio. Il capitale è fra l’altro anche uno strumento di produzione, anche lavoro passato, oggettivato. Quindi il capitale è un rapporto naturale eterno, universale; a condizione che io tralasci proprio quell’elemento specifico che, solo [corsivo e grassetto miei] fa di ‘uno strumento di produzione’, di un ‘lavoro accumulato’, un capitale” (Marx, Introduzione del 1857 a Per la critica dell’economia politica).
Questo elemento specifico, per chi sa qualcosa di Marx, è esattamente il rapporto sociale “storicamente determinato”, che caratterizza la formazione sociale detta capitalistica, con la sua netta scissione tra i saperi intrinseci all’abilità produttiva basata sulla tecnologia e il lavoro puramente esecutivo o addirittura soltanto manuale (addetto semplicemente a servire le tecnologie); con la sua proprietà “privata” dei (potere di disposizione sui) mezzi di produzione scissa dal lavoro salariato (vendita della capacità lavorativa, intellettuale e manuale, come merce), ecc. Ora, per quanto concerne il nutrimento (il modo di mangiare e i cibi che mangiamo, come li cuciniamo, ecc.), il difendersi dal freddo e il vestirsi (che non è iniziato subito, appena si è presentata in scena una “scimmia/uomo”), il comunicare parlando quelle che saranno denominate lingue, e via dicendo, vale quanto detto per la “produzione in generale”. Se ci limitiamo alla considerazione degli elementi genericamente comuni in tali processi (indicati come comuni in base all’astrazione di tali elementi dalla loro collocazione storica specifica) capiamo ben poco dell’evoluzione delle differenti formazioni sociali, cioè dei sistemi di relazioni intersoggettive determinati storicamente e non in generale; poiché questo generale, senza le sue determinazioni storico-peculiari, è la “notte in cui tutte le vacche sono nere”.
Io sto con Marx e con la storicità di tutti gli elementi “comuni”, “in generale”, che nella loro pretesa eternità (quali principi dell’Uomo, principi Veri, Giusti, Buoni, ecc.) sono troppo spesso funzionali al blocco di ogni trasformazione della società. Che si sia sinceri e ci si creda veramente, che si sia disposti a morire per questi principi, non mi basta affatto per giustificare e comprendere, tout court, coloro che così agiscono; desidero innanzitutto una disamina del loro agire, delle motivazioni di questo agire, del ruolo e funzione che esplica l’agire di costoro nel sistema specifico dei rapporti sociali in quella data fase storica. Questo il mio modo di pensare; e non l’abbandono nemmeno provando pietà per chi muore in nome della sua diversa convinzione. Certe conciliazioni sarebbero false, menzognere.
In mutate contingenze appaiono le nostre radicali diversità; ed è bene non nasconderle. Si possono a volte e perfino spesso, ma sempre nell’ambito di particolari congiunture storiche, stabilire delle convergenze d’azione al fine di conseguire alcuni obiettivi. E’ corretto a mio avviso tenere siffatto comportamento, consci però della normale transitorietà storica di dette congiunture; quando esse tramontano, diventa allora molto probabile l’insorgenza di contrasti e anche di radicali divergenze tra gli “alleati”. Si arriva così alla divisione e in certi casi, sempre storicamente determinati, alla reciproca eliminazione, finché qualcuno non vince per un periodo di tempo di varia lunghezza.
Questo mi sembra essere stato l’andamento della storia umana, che travolge infine la fedeltà a principi pretesi assoluti sorti nella mente di soggetti inseriti in processi di incessante fibrillazione ed evoluzione; a volte lenta, tanto che la “realtà” sembra ferma, tal’altra in tumultuoso cambiamento che tutto travolge e di cui non riusciamo ad afferrare nemmeno i contorni. Sempre vi sarà chi non accetta il trasmutare delle situazioni, chi vorrebbe continuare a vivere in una data “aura” cui si è ormai abituato e che trova a lui confacente; e chi, invece, non vi si trova più a suo agio e fa il possibile, senza dubbio anche sbagliando, per adeguarsi a questo trasmutare. Cerchiamo di comprendere che non siamo “Soggetti” astorici, che non rispondiamo semplicemente alla “nostra coscienza” o addirittura a “Qualcuno” che da un luogo imprecisato, ma “posto Molto in Alto”, ad essa parla e l’indirizza.
Non siamo nemmeno “foglie al vento”, senza dubbio; siamo tuttavia dentro un flusso in continua vibrazione e “riconfigurazione”. Ci formiamo molte “idee strane”, che sistemiamo in qualche modo, ma sempre sotto la pressione dell’onda che ci trasporta. Cerchiamo la fissità per poterci muovere su un terreno solido e stabile, in cui non trovarci in perenne squilibrio, sempre lì lì sul punto di cadere con le nostre gambette così fragili. Questa fissità è il nostro modo di conoscere, costantemente alimentato da un’ideologia: con sue dosi più o meno massicce e senza sorveglianza alcuna oppure con la sobrietà suggeritaci da quella che denominiamo scienza. E tale sobrietà ci obbliga appunto a renderci soprattutto conto che la fissità è una nostra convenienza, ma non è “reale”. Tutto l’esistente muta, scorre, immerso nel tumulto dell’incessante fluire vibratorio; quindi, ogni tanto, è indispensabile riconsiderare il nostro porre quella data fissità, perché altrimenti questo nostro necessario comportamento diviene estremamente s-conveniente e ci condurrà soltanto, in ogni caso, alla morte (non semplicemente la cessazione della vita biologica, quella detta “naturale”). Ne dovremo riparlare spesso.