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Sui social perdiamo la prospettiva di noi stessi

Creato il 21 marzo 2016 da Marianocervone @marianocervone

facebook - internettuale

Se fino agli inizi degli anni 2000 avevamo bisogno dei reality per spiare le vite degli altri e dei pseudo-famosi, con la diffusione di facebook e di tutti i social, siamo noi ad esserci (in)consapevolmente trasformati in protagonisti di uno show virtuale. Post, foto, link, tag e video diventano strumenti di propaganda di un’immagine, la nostra, sempre più lontana dalla realtà. Sorrisi da Mentadent, volti da BB Cream e corpi statuari da fanghi d’alga Guam, aiutati da Photoshop, filtri e app per raggiungere una perfezione irreale. Persino il nostro pensiero è sintetico: si sfoggia una cultura in realtà inesistente, si ostenta un’arguzia fatta di citazioni di libri mai letti e di film mai visti. Una recita che, senza nemmeno accorgerci, si trasforma in un vero e proprio lavoro. E allora eccolo l’esercito di chi va in palestra passando più tempo a sollevare iPhone allo specchio che pesi al bilanciere, delle pseudo-modelle e starlette ritoccate fino al midollo che si credono Bianca Balti, di quelli che quando mangiano sushi si sentono food blogger o persino chi va ad una inaugurazione e si fa foto da tappeto rosso con fare da divo hollywoodiano. Perché, se “l’essenziale è invisibile agli occhi”, sovvertendo ogni logica, ciò che conta non è più quello che sei, ma chi dimostri di essere on-line.

Condividiamo link di sensibilizzazione contro la povertà, la violenza sulle donne, la difesa degli animali e l’ambiente per sentirci migliori. Ma siamo pronti all’invettiva, a scagliarci in acerrime diatribe verbalmente violente per un nonnulla, mentre nella vita vera, quella che spesso dimentichiamo, se un mendicante invoca la nostra pietas ci voltiamo con indifferenza dall’altra parte fingendo di non vedere.

Twittiamo cattiverie per aumentare follower e inventiamo esperienze lavorative, o vere e proprie professioni, per alzare la visualizzazione su LinkedIn.

Figli del qualunquismo protetti dall’anonimato e dalla discrezione dei display, trasformiamo le sedie dalle quali scriviamo in tribune politiche o sportive: onorevoli e CT della nazionale, teoricamente abili a risolvere problemi di cui in realtà sappiamo poco.

Foto-dipendenti, trasformiamo pranzi e cene di Natale in veri e propri reportage fotografici. Selfie-maniac dagli sguardi languidi e pose sensual. Per alcuni persino le espressioni del volto sono sempre le stesse, perpetuando una irrefrenabile voglia di farsi vedere pur non avendo nulla da mostrare. Gare di “like” e commenti per appagare un vacuo senso di vanità, la sensazione di sentirsi in cima alla piramide social(e). Importanti, ammirati. Alimentiamo un ego che ha sempre più fame di se stesso, e ci divora lentamente come un buco nero.

Sedicenti leader in un popolo, quello della rete, fatto per lo più di gregari, dove sono pochi quelli che riescono veramente a distinguersi, mentre la maggior parte segue stancamente ciò che fanno gli altri, in un replicato gioco di imitazioni in cui vince chi si sente più omologato alla massa. Lo faccio perché è “trendy”, come colorare le proprie immagini profilo a sostegno di cause di cui si conosce poco o nulla.

Nasce il cyberbullismo, la frecciatina via post, si ripetendo dinamiche nate sui banchi di scuola e che si perpetuano continuando a farci sentire dei liceali, con amici fidati e nemici giurati, prolungando un’adolescenza digitale che ritarda quel naturale passaggio all’età adulta, e perdendo la vera prospettiva di noi stessi.


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