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"Suite francese". E se si raccontasse la storia del romanzo?

Creato il 09 marzo 2015 da Gaetano63
Delude la versione cinematografica del capolavoro di Irène Némirovsky
Il regista punta sul melodramma consegnandoci una trasposizione piuttosto didascalica per quanto ben confezionata di un’opera che avrebbe meritato una diversa sensibilità
di Gaetano ValliniChe cimentarsi nella trasposizione cinematografica di un romanzo come Suite francese  — acclamato capolavoro di Irène Némirovsky sull’occupazione nazista della Francia e strettamente intrecciato alle tragiche vicende personali dell’autrice, ebrea di origine ucraina morta ad Auschwitz nel 1942 — sarebbe stata un’operazione insidiosa doveva essere chiaro anche al regista britannico Saul Dibb. Il quale però non ha rinunciato alla ghiotta occasione, riuscendo tuttavia solo in parte nell’impresa. Mentre infatti l’ambientazione risulta azzeccata, con una messinscena dal sapore classico, la narrazione non si sottrae alla scelta più facile e per questo più rischiosa: focalizzarsi sul secondo dei due capitoli del romanzo, Dolce, riducendo un’opera ampia, ancorché incompiuta, al racconto dell’amore impossibile e scandaloso tra una giovane francese e un ufficiale tedesco. Una scelta anche comprensibile, vista la trama incompleta del romanzo, ma che alla fine non rende giustizia della grandiosità dell’affresco che l’autrice aveva intenzione di realizzare e che in parte aveva già realizzato, scrivendo su quanto accadeva sotto i suoi occhi in Francia. Némirovsky stava infatti dando vita, in segreto, a un romanzo popolare, con la grande Storia a fare da sfondo alle vite di uomini comuni i cui destini si incontravano intrecciandosi fino a essere travolti dal dramma di una intera nazione. Prima dell’arresto e della deportazione l’autrice riuscì a comporre solo i primi due capitoli dei cinque progettati: Tempesta di giugno, sulla fuga in massa dei parigini prima dell’arrivo dei tedeschi, e Dolce. Il seguito sarebbe stato Captivité, l’unico dei tre capitoli incompiuti di cui la scrittrice aveva delineato anche la trama, mentre per  gli ultimi due aveva abbozzato solo i titoli — Batailles e La paix — che apparivano più come una speranza che come una scelta dettata dalla realtà.  Il film è ambientato in un piccolo paese, Bussy, dove la giovane Lucile Angellier (Michelle Williams) vive con la suocera (Kristin Scott Thomas), donna aristocratica tanto dispotica quanto meschina, nell’attesa di ricevere notizie del marito partito per la guerra, ma sposato solo per compiacere il padre. L’asfissiante quotidiana monotonia viene interrotta prima dall’arrivo dei parigini sfollati e successivamente dai soldati tedeschi, che cominciano a occupare le case. All’abitazione degli Angellier viene destinato un giovane e colto ufficiale, Bruno von Falk (Matthias Schoenaerts). All’inizio, anche per non urtare la sensibilità della suocera, Lucile ignora l’ospite, ma gradualmente la comune passione per la musica li avvicinerà, facendo brillare la scintilla di un amore inopportuno, proibito, dall’esito incerto. E fra tradimenti e segreti, la donna sarà chiamata a combattere la sua battaglia interiore.Dibb, apprezzato dalla critica per Bullet Boy e noto per La Duchessa (Oscar per i costumi nel 2009), punta dunque sul melodramma, consegnandoci una trasposizione piuttosto didascalica, per quanto ben confezionata, di un’opera che avrebbe meritato una diversa sensibilità per superare proprio la sua incompiutezza. La regia, invece, prendendosi qualche libertà e costruendo un finale tutto sommato abbastanza credibile, si accontenta tuttavia della semplicità. Semplicità che non si ritrova nel romanzo, la cui storia in fondo s’intreccia con quella della tragica fine dell’autrice. Irène Némirovsky, figlia di un banchiere ebreo, era nata a Kiev nel 1903. A seguito della rivoluzione bolscevica, nel 1918 era fuggita con i genitori da San Pietroburgo per arrivare in Francia dopo aver fatto tappa in Svezia e in Finlandia. Prima della guerra aveva ottenuto un certo successo con alcuni romanzi, in particolare David Golder, che l’avevano imposta come scrittrice di un certo talento. Nel frattempo aveva sposato Michel Epstein, con il quale avrebbe avuto due figlie, Denise ed Elisabeth. Mentre era intenta a scrivere Suite francese venne arrestata. Era il 13 luglio 1942. Tre giorni dopo fu deportata. Morì ad Auschwitz il 17 agosto. Non la salvò il battesimo che aveva chiesto e ottenuto per sé e le figlie dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali.Il marito cercò in tutti i modi i ottenere la liberazione di Irène, ma venne arrestato e anch’egli deportato ad Auschwitz, dove giunse il 6 novembre, immediatamente condotto alla camera a gas. Ma prima dell’arresto riuscì ad affidare le due figlie a una tata, che le nascose sottraendole alla polizia francese sottomessa ai nazisti. Unica eredità lasciata dall’uomo alle sue bimbe una scatola con il manoscritto del romanzo della mamma. Finita la guerra Denise ed Elisabeth attesero invano per mesi il ritorno dei genitori all’Hotel Lutetia dove, provenendo dalla stazione ferroviaria Gare de l’Est, arrivavano alla spicciolata i sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Sconvolte dalla verità sulla loro fine, non trovarono il coraggio di aprire il pacchetto consegnato loro dal padre. Lo fecero solo mezzo secolo dopo. E trascorsero altri dieci anni prima di decidere di dare alle stampe quelle pagine vergate in una calligrafia minuscola su fogli sottilissimi. Tanto che all’inizio erano sembrate appunti di un diario intimo più che la lucida testimonianza in presa diretta, anche se in forma di romanzo, del dramma che stava sconvolgendo la Francia e con essa l’Europa intera. Che non risparmiò neppure l’autrice.
Chissà che prima o poi qualcuno non decida di  portare sul grande schermo proprio  il tragico racconto degli ultimi anni dell’autrice, della rocambolesca storia del suo capolavoro incompiuto e di come è giunto fino a noi. Magari sarebbe un’operazione più interessante.(©L'Osservatore Romano –  10 marzo 2015)

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