Magazine Cinema

SUITE FRANCESE – recensione. L’esplosivo romanzo della Némirovsky ridotto a soap

Creato il 13 marzo 2015 da Luigilocatelli

130813SH_226.nefSuite francese, un film di Saul Dibb. Dal romanzo di Irène Némirovsky (Adelphi). Con Michelle Williams, Matthias Schoenhaerts, Kristin Scott Thomas, Ruth Wilson, Sam Riley, Lambert Wilson, Margot Robbie.
250713SH_0214.nefUn puro prodotto Weinstein che estetizza, anestetizza e soappizza un romanzo dal nucleo esplosivo come Suite francese di Irène Nemirovsky. Nella Francia di Vichy una signora francese con marito disperso al fronte si innamora di un tenente della Wehrmacht colto e sensibile. Ma niente potrà contro la Storia. Un merito, uno solo, però il film ce l’ha, spingerci a saperne di più della Némirovsky. Voto 5 meno
220813SH_597.nef300713SH_269.nefHa ragione Variety nel dire che la cosa più francese di questo film, forse l’unica, è il titolo. Per il resto ci troviamo di fronte a una di quelle operazioni insapori e inodori e senza identità in cui si è specializzato il produttore-distributore Harvey Weinstein, certo un genio nel fiutare i gusti di un pubblico che si pretende più fine e colto delle platee popcorn (e in realtà altrettanto convenzionale), e però implacabile nell’appiattire e semplificare, nel ridurre al minimo e anche allo spicciolo ogni congegno narrativo complesso, alto, pluristratificato. Qui prende il celebrato romanzo incompiuto di Irène Nemirovsky, un caso letterario e non solo scoppiato nel 2004 a livello planetario con milioni di copie vendute, e lo dà in mano a un regista finora non così di prima fascia (l’inglese Saul Dibb, autore del non memorabile La duchessa con Keira Knightley), e candeggia la francesità della storia originale facendola girare tutta in inglese con attori in gran parte anglofoni (scusate, ma che ci fa la pur brava Michelle Williams nella parte di una signora della media borghesia parigina anni Trenta-Quaranta? per non parlare della Margot Robbie di Focus e The Wolf of Wall Street sprecata nel ruolo piccolissimo di una contadina della Francia profonda che se la fa con i soldati tedeschi: che alla fin fine l’unico vero gallico del cast è Lambert Wilson). Non bastasse, il villaggio di Bussy ove si muove la vicenda somiglia tanto, nella sua falsa autenticità con tutte quelle scritte da presepe turistico tipo boulangerie e pharmacie e così saturo di di baguette e croissant e pathé, alla Francia manierata e pittoresca di quei tremendi Lasse Hallström-movies tipo Chocolat e Amore, cucina e curry. La Francia come se la può immaginare un medio turista dell’Ohlahoma, e che l’astuto Weinstein – il vero autore del film, così come lo erano certi leggendari moghul del cinema tipo David O. Selznick – puntualmente riconfeziona per il suo, per l’appunto principalmente americano, pubblico. Ultimamente Weinstein sembra essere molto interessato, e di questo bisogna rendergli il giusto merito, a produrre-distribuire film su una delle fasi più tormentate dell’Europa del Novecento, quella del nazismo e relative conseguenze. Lo ha appena fatto con (il mediocre) Woman in Gold, visto in prima mondiale alla recente Berlinale, dove si affronta il tema ancora bruciante delle opere d’arte trafugate dai tedeschi e della loro restituzione, lo fa con questo Suite francese. Che adatta con un po’ di necessari aggiustamenti il testo della Némirovsky, scritto all’inizio degli anni Quaranta: dove nel prima parte si parla della fuga da Parigi dopo la resa del 1940 ai tedeschi, l’occupazione, la formazione del governo collaborazionista di Vichy e nella seconda di un’attrazione che mai si coagula in una relazione tra Lucille, una signora con marito soldato sfollata da Parigi e rifugiata dalla suocera nel villaggio di Bussy, e Bruno von Frank, tenente della Wehrmacht assai sensibile (è un musicista), educato, coltivato e gentiluomo, imposto alla due donne come ospite dal comando tedesco. In realtà il film del primo capitolo prende ben poco, per concentrarsi invece sulla storia d’amore e relativo contesto ambientale del secondo, inventandosi un finale che Irène Némirovsky non aveva potuto scrivere. Nella sue intenzioni anzi Suite francese doveva essere composto da cinque parti, un grande affresco, e assai ambizioso, della Francia sotto occupazione. Rimase incompiuto, perché lei, ebrea di Kiev ma da decenni francese adottiva (anche se apolide), nel 1942 fu arrestata e poi deportata ad Auschwitz, dove sarebbe morta di tifo (di lì a poco anche il marito sarebbe stato mandato nello stesso campo, e ucciso nelle camere a gas). Del manoscritto di Suite francese nessuno è a conoscenza. Lo scoprirà per caso, in un baule, ben 65 anni dopo la figlia, e la sua pubblicazione nel 2004 si trasformerà in un evento. Impossibile leggere oggi il libro, e vedere il film, senza pensare alla sua autrice, prescindendo dal suo destino di vittima dell’Olocausto. Colpisce la lucidità dello sguardo, l’implacabilità e il disincanto nel registrare gli ambigui rapporti tra la gente del villaggio e gli occupanti, le aree di resistenza all’invasore ma anche quelle oscure di collusione e collaborazione, o addirittura di infame delazione (quelle lettere anonime mandate da probi cittadini per denunciare al comando della Wehrmact ebrei, comunisti, omosessuali). E si resta folgorati da come Némirovsky non appiattisca il suo tenente von Frank sul cliché del nazista assassino, ma lo sottragga a ogni convenzionalità e mostrificazione per rendercelo umano. Qualcuno ha scritto, non senza ragione, che quello di Suite francese è il nazista più buono di tutta la storia della narrativa, ed è questa capacità di intravedere la consistenza esistenziale oltre la maschera, le divisa e gli stereotipi a fare la grandezza del libro. È l’inscrivere l’innamoramento di una signora francese per un soldato occupante nell’ordine della liceità e perfino della normalità, e non in quello della depravazione e della colpa, segnando la differenza rispetto a tanta letteratura affine precedente e successiva (penso alla carica di condanna che c’è in Senso di Camillo Boito-Luchino Visconti per la protagonista, italiana innamorata di un ufficiale austriaco). Ma con altrettanta lucidità Irène Némirovsky registra l’impossibilità dell’amore tra un uomo e una donna collocati su fronti opposti, e che nulla possono fare per uscire dalla loro appartenenza, per sottrarsi al peso della loro condizione oggettiva. Schiacciati dalla Storia (sì, maiuscola), Lucille e Bruno non potranno che separarsi ancora prima di essersi davvero incontrati. Il film di Saul Dibb non ce la fa a catturare questo nucleo incendiario, esplosivo, lo semplifica e spegne in un racconto da soap per quanto lussuosamente impaginato, in un period movie con molta attenzione ai costumi e al décor e poco o niente al potere destabilizzante e devastante della carne e dell’eros. Nonostante tutto, qualcosa del potere tellurico dell’originale sopravvive. E mentre le immagini scorrono sullo schermo si resta soggiogati non dal film che vediamo, ma da quello che intuiamo sarebbe potuto essere. Si salva Kristin Scott-Thomas, più che credibile come arcigna suocera nazionalista e antitedesca, e soprattutto si salva Matthias Schoenaerts che sa rendere con finezza i turbamenti del suo tenente della Wehrmacht e che si conferma, dopo Bullhead e Un sapore di ruggine ed ossa, uno dei migliori attori europei oggi su piazza. Ma un merito grande il film ce l’ha, ed è di spingerci a riconsiderare il caso Irène Nemirovsky, a leggere di più di lei, a saperne di più, al di là dei ritratti spesso di maniera fatti circolare in occasione dell’uscita dei suoi testi. Devo dire che quando un paio di anni fa m’è capitato di vedere qui a Milano allo Spazio Oberdan David Golder, il raro e quasi dimenticato film del 1931 di Julien Duvivier tratto dal suo primo romanzo, quello che fece di lei una scrittrice di massimo successo in Francia, son rimasto quantomeno turbato. In quella storia-parabola di un ebreo di Kiev (come Irène Nemirovsky) che diventa un magnate del petrolio e poi finisce con l’autodistruggersi mi sembrò di intravedere l’ombra, il rischio di un qualche cliché antisemita. Pensavo fossero mie allucinazioni. Ma leggo adesso sulla rete un pezzo del Guardian del 2007 a firma Stuart Jeffries in cui si fa il punto sulla polemica nata dopo la pubblicazione di Suite francese intorno alla figura della Némirovsky, accusata da Miriam Anissimov (biografa di Primo Levi) di essere una self-hating Jew, un’ebrea che odia se stessa. Qualcuno ricorda come avesse collaborato negli anni Trenta a una rivista francese antisemita, e la lettera che, nella Francia di Vichy, lei stessa scrisse al maresciallo Pétain implorando aiuto e rivendicando la sua diversità rispetto agli altri ebrei. Ma basta questo per infangarla, soprattutto se si tien conto dello stato di necessità e di pericolo in cui si trovava? L’articolo di Jeffries, di enorme interesse, ricapitola il caso elencando i fatti, alternando i vari punti di vista, riportando parecchi interventi, e non sposa certo la posizione degli avversari della Némirovsky. Alla fine si resta con l’impressione di un personaggio complesso e straordinario, altrettanto se non più romanzesco dei suoi libri.
Nota: il film è da oggi nei cinema inglesi, oltre che in quelli italiani, ma non ha ancora una data di uscita negli Stati Uniti. Segno che la distribuzione qualche dubbio sul suo potenziale al box office ce l’ha.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :