Il nero muggito di Tarkus è un pianto metallico che paralizza i suoni, che congela la luce.
La verde vita della natura si ritrae innanzi al suo plastico sbuffare; appassisce, sotto il peso del suo liscio avanzare di cingoli.
È un cieco strangolare.
Un arido massacro silenzioso.
Il sangue nelle vene mi urla rosso, appuntito, violento; la ferocia, nel cervello è un'afosa nebbia di fuoco, un mantello di chimica euforia che avvolge i neuroni, nutre le sinapsi con elettrica velocità, canta gli istinti, facendo danzare i riflessi a fior di pelle.
La mia voce è una freccia, diretta e affusolata come un dardo di carne magmatica, un umido proiettile di lacrime e tessuti che fende il suo grigio miasma di morte per conficcarsi a pochi passi dal suo carburante incedere.
Un esultante guanto di sfida.
Portatore di fiorita speranza.
Non aspetto che si fermi; che i suoi pistoni, i suoi volani, le cinghie di trasmissione mi notino, che mi identifichino come una minaccia.
Carico.
Mentre corro verso la mia preda, i miei arti si allungano con la violenza di un fiume in piena; la pelle s'inspessisce, a proteggermi una corazza di accecante sole estivo; unghie e i denti acuminati, diventano sciabole diamante di fuoco stellare.
Salto alla gola della fiera a motore.
Assalti, graffi, morsi ed esplosioni.
Rotoliamo lungo il pendio come il giorno e la notte.
Quando mi rialzo, un freddo buio mi circonda; i rottami di Tarkus sparsi nel silenzio.
Poi, all'orizzonte, i primi baci di luce mi addolciscono la pelle, mi scaldano la vista.
È l'alba.
La caccia è finita.
È tempo di tornare a casa.