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Sul concetto di “confine”

Creato il 24 novembre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
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Alain Finkielkraut

di Michele Marsonet. In Europa il concetto di “confine” sta tornando in auge dopo essere stato demonizzato per un lungo periodo. Con il trattato di Schengen, ora sospeso de facto, ci eravamo illusi di essere finalmente entrati in una nuova epoca, contrassegnata – almeno all’interno della UE – dalla libera circolazione delle persone e da un’assenza pressoché totale di controlli.


Tale tendenza si è poi diffusa ben al di là del Vecchio Continente. Molte nazioni extra-europee hanno abolito, soprattutto a fini turistici, l’obbligo del visto per i cittadini comunitari e, con grande sollievo di molti, è (o era?) possibile recarsi in luoghi lontanissimi e ammirarne la bellezza senza doversi sottoporre alla fastidiosa procedura di chiedere permessi ad ambasciate e consolati.

Penso tutti rammentino la sensazione provata quando Schengen entrò in vigore. Da un giorno all’altro scoprivi che, sbarcato all’aeroporto di Parigi o di Berlino, ti lasciavano passare dopo una rapida occhiata alla carta d’identità e, a volte, neppure quella. Persino nel Regno Unito, rimasto – con l’Irlanda – fuori dall’area Schengen, era tutto più facile. Pure a Londra l’identificazione cominciò a essere assai più spedita di un tempo.

Ecco dunque l’impressione di “essere a casa” ovunque, accompagnata dal senso d’orgoglio per la dimostrazione di civiltà che la UE sapeva offrire a tutti i suoi cittadini, indipendentemente dal Paese di provenienza.

In realtà qualche dubbio c’era. Rammento che alcuni anni fa giunsi all’aeroporto di Reykjavik e andai dritto all’uscita senza che nessun poliziotto o doganiere islandese mi controllasse. Al collega della locale università che mi attendeva espressi il mio stupore dicendo che, dopo tutto, avrei potuto essere un criminale. “Certo – rispose lui ridendo – ma saresti comunque un criminale dell’area Schengen!”.

Ora questo sta finendo sotto il peso degli avvenimenti che tutti conosciamo, e non è detto che si ritorni in tempi brevi alla situazione precedente. Anzi, è molto plausibile pensare il contrario. E qualche riflessione diventa allora necessaria.

Il concetto di “confine” è in effetti ambiguo o, ancor meglio, ambivalente. Da un lato denota separatezza ed esclusione. Inglesi, francesi o spagnoli sono esseri umani come me, italiano. Per di più io e loro apparteniamo a quella che, con espressione forse un po’ magniloquente, si definisce “civiltà comune”. Ne consegue che i controlli, una volta valicati i confini nazionali, sono ingiusti e vanno aboliti.

D’altro canto il “confine” ha pure un significato positivo. Fa capire che siamo entrati nel territorio di una nazione che ha una storia, una cultura e dei valori diversi dai nostri. Il grado di diversità varia naturalmente a seconda dei contesti, e può essere più o meno rilevante. Ma, in ogni caso, è il risultato di una sedimentazione ideale e culturale lunghissima, poi sfociata in un’identità che appartiene ad alcuni e non ad altri. Che c’è di male, in fondo, nel voler difendere la propria identità, assicurandosi che chi arriva da fuori non abbia intenzione di nuocere?

Ovviamente il discorso è complesso e il dibattito in corso dimostra che non ci sono soluzioni facili a portata di mano. Vorrei però citare il filosofo francese Alain Finkielkraut quando sostiene che  “con l’Unione Europea abbiamo voluto instaurare il regno della pace perpetua, e il nostro sogno ‘elvetico’ ora si è frantumato. La sparizione delle grandi ideologie poteva lasciar sperare nell’avvento di un mondo unito e pacificato secondo la triplice entità costituita dall’economia di mercato, Internet e i diritti dell’uomo. L’illusione è svanita in maniera brutale: stiamo vivendo la fine della fine della Storia. La Storia si è ripresentata in un Paese e in un continente che credevamo ormai invulnerabili”.

Chiaro il richiamo alle tesi di Francis Fukuyama, un tempo popolari e adesso smentite dalla realtà dei fatti. E chiaro pure un duplice e prezioso avvertimento: la Storia non finisce mai e, soprattutto, non è affatto prevedibile come molti filosofi hanno sostenuto. Si possono certo fare previsioni, ma assai limitate e con un mero valore statistico.

Ed è pure utile richiamare l’attenzione su un altro fatto. Il termine “nazionalismo”, proprio come quello di “confine”, è ambiguo e ambivalente. Ha valenza negativa se diventa un pretesto di offesa, di prevaricazione  nei confronti di altri popoli. Acquista invece un senso positivo quando viene inteso quale strumento per difendere un’identità nostra che ci è cara, riconoscendo al contempo il diritto degli altri di mantenere la loro.


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