Sul coraggio d’artista di Christiane Seganfreddo. Un omaggio.

Creato il 16 febbraio 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

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NO coward soul is mine,
No trembler in the world’s storm-troubled sphere:
I see Heaven’s glories shine,
And faith shines equal, arming me from fear.
Da “Last lines” di Emily  Brontë
 
 
“Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”
Epitaffio sulla tomba di John Keats, Roma

di Rina Brundu. Si chiamava Christiane Seganfreddo. Viveva in quelle colline valdostane che si possono immaginare bellissime in ogni periodo dell’anno. Anche d’inverno quando i ruscelli ghiacciano e la neve diventa coltre, tapetto, coperta calda capace di scaldare radici che un giorno saranno piantine, rami, fiori, petali colorati sotto il sole delle meravigliose primavere di montagna. Il 30 dicembre 2013, Christiane è uscita di casa per non più ritornare. Il suo corpo privo di vita è stato ritrovato ieri, poco lontano dalla sua abitazione, nei pressi di un ruscello. La causa della morte? Forse un incidente, forse suicidio.

Christiane era un’insegnante, una mamma, una moglie ma tra le tante altre cose Christiane era un’artista. Di grande talento a leggere i commenti di coloro che hanno visto le sue opere. Non si può immaginare un artista senza un’innata propensione introspettiva, senza la sua personale ricerca di solitudine. Secondo il grande critico letterario inglese Cyril Vernon Connolly (compagno di scuola dello straordinario George Orwell) “Un grande artista è come un fico le cui radici si protendono sottoterra per una trentina di metri alla ricerca di fogliuzze di tè, cenere e vecchi stivali. L’arte prodotta appositamente per la Comunità non potrà mai possedere la qualità intima dell’arte che è frutto della solitudine dell’artista”.

Insomma, la solitudine è una sorta di conditio-sine-qua-non. Una condizione senza la quale l’artista non potrà produrre un’arte vera. Ad un tempo, tale solitudine è uno scotto da pagare. Un prezzo sovente molto alto, perché è dentro i suoi percorsi dolorosi, passaggi segreti difficili, strade, stradine strette e contorte, tragitti infiniti che si insinuano pensieri. Diversi. Elucubrazioni che cambiano l’essere e che lo portano ad acquistare una diversa coscienza del sé, a guardare le cose – tutte le cose, anche le vicissitudini tremendamente serie della vita – da altra prospettiva.

Se è vero infatti che Christiane si sarebbe allontanata da casa dopo avere scoperto di avere la miastenia, una terribile patologia degenerativa agli occhi che l’avrebbe portata a perdere la vista, non è azzardato pensare che quella capacità di diversa prospettiva di visione, mercé il coraggio dell’artista Christiane, abbia preso il sopravvento. Se così fosse questo “diverso” percorso d’intelletto, questo passaggio-intimo andrebbe rispettato. Da tutti. Dalle istituzioni in primo luogo, dalla comunità dove Chistiane viveva, dagli amici, ma anche e soprattutto dai suoi cari. Questo non significa che la famiglia non abbia diritto a vivere il suo dolore; viceversa, significa che quel dolore dovrebbe trovare ristoro proprio nella presa di coscienza del coraggio che ha saputo mettere Christiane quando ha deciso di prendere il destino tra le mani e, nel giusto tempo, dovrebbe portare i suoi cari a mostrare al mondo la sua arte, a fare in modo che i suoi lavori (e dunque il suo spirito, la sua tempra, la sua anima “diversa”) abbiano la giusta visibilità, diano conforto anche a tutti coloro che non l’hanno conosciuta in vita.

Affinché un giorno, nel suo piccolo, si possa dire di Christiane Seganfreddo qualcosa di molto simile a ciò che lasciò detto lo stesso Cyril Connolly a proposito del suo immortale compagno di banco: “Orwell mi diede prove che esisteva un’alternativa al carattere, l’intelligenza”.

Featured image, ritratto di Emily Brontë, dipinto dal fratello nel 1833 circa (ritoccata)

 

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