L'impressione è che Michael Mann con "Miami Vice" si diriga sempre di più verso un'immagine e un montaggio astratti, verso un cinema di sensazioni sempre in bilico tra campo e fuoricampo. Nel punto liminale dove l'adrenalina si fa canto d'amore nei confronti dello scorrere del tempo, di cose e situazioni, Mann sembra interessato al flusso prorompente, incessante dell'azione. Ma è anche capace di infiammarsi in parentesi sentimentali accesissime e completamente fuori controllo, in cui sono le notti, gli sguardi, le luci e i cieli della città, a fare e a dire il film.
Siamo nella direzione in cui la storia non basta, perché il cinema ribolle sotto ogni superficie, brucia la patina dell'immagine, fa detonare il luccichio degli abiti, delle automobili, dei gesti: ecco il motivo per cui "Miami Vice" dovrebbe sempre e comunque essere amato alla follia: perché in un mondo digitale salva il cinema, quello che Mann ha amato e non ha mai dimenticato.
Gli basta uno sguardo per suggerire mondi interiori e dilaniati, per raccontare altre storie oltre alla storia, che qui è puro, geniale pretesto. Ancora una volta si accendono strutture speculari, ritorna il tema del doppio tanto caro al regista di Heat, di Collateral, di Insider.
E', alla fine, un cinema di rime, risonanze, di sogni gentili e impossibili: in fondo Michael Mann rimane l'ultimo dei grandi cineasti romantici di Hollywood.
post scriptum Nel flusso dirompente dell'azione, poco dopo l'inizio di "Miami Vice", Colin Farrell si volta a guardare il cielo: sono soli pochi istanti, ma il film esce da se stesso, suggerisce un mondo che popola il sottosuolo di ogni immagine. In pochi secondi Michael Mann riesce a entrare in mondi segreti inseguiti ma raramente raggiunti da interi film.