di Michele Marsonet. E se la Repubblica Popolare Cinese fosse un enorme ossimoro? L’idea è meno strana di quanto potrebbe sembrare di primo acchito. Quando ci si riferisce al colosso asiatico è ormai usuale utilizzare strane espressioni quali “capitalismo di stato” e “comunismo di mercato”. Di recente mi sono pure imbattuto in “capitalismo autoritario”. Il fatto è che dopo la grande svolta economica imposta da Deng Xiaoping a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, il Paese ha cambiato pelle. In un primo tempo con lentezza e poi a ritmo sempre più accelerato.
Anche se rimangono squilibri enormi, per esempio tra grandi città e campagne, è fuor di dubbio che il benessere generale sia aumentato rispetto al periodo precedente. Parlo, ovviamente, di benessere relativo con riferimento alla gran massa della popolazione, mentre “principi rossi” e alti quadri del partito hanno nel frattempo accumulato patrimoni enormi (spesso depositati in paradisi fiscali stranieri).
Sarebbe tuttavia errato trascurare i fattori culturali. I milioni di studenti cinesi che ogni anno sciamano all’estero per frequentare i corsi delle università americane, europee e australiane, portano con sé al ritorno idee e valori che in patria vengono tuttora visti con sospetto. Il confronto è inevitabile con tutte le conseguenze del caso.
Da parecchio tempo la leadership di Pechino manifesta timori al riguardo, ed è facile capirne i motivi. Teme, in altri termini, che la situazione possa sfuggirle di mano in qualsiasi momento originando una serie di reazioni a catena. Ecco perché nulla è stato concesso ai ribelli di Hong Kong. Paventa – penso con ragione – che il “virus della democrazia” difficilmente potrebbe prosperare soltanto nella ex colonia britannica senza propagarsi in tempi brevi nel territorio continentale.
La reazione della ristretta cupola che governa il Paese appare quanto meno ondivaga. Xi Jinping è arrivato al potere su posizioni moderate che lo posero al tempo in conflitto con la “sinistra” del partito, la quale auspicava un ritorno ai tradizionali valori maoisti. Ora, però, innesta la retromarcia facendosi promotore di una ripresa del marxismo-leninismo filtrato, ovviamente, dagli insegnamenti di Mao.
In realtà la lotta è ideologica soltanto in apparenza, a beneficio delle masse. E’ molto evidente, infatti, che la patina dell’ideologia serve soltanto a nascondere l’aspirazione, da parte del PCC, di conservare per sé tutto il potere senza condivisione alcuna. Al massimo instaurando alleanze con altri soggetti – esempio tipico l’esercito – a patto che dichiarino apertamente di essere fedeli alle direttive del partito.
In questo periodo la propaganda insiste con forza sulla necessità di non farsi “contaminare” dai valori occidentali e liberali, incoraggiando delazioni e purghe nei mass media, nei centri culturali e addirittura nelle università. Le critiche a Mao sono equiparate a “eresie” frutto del cedimento al liberalismo occidentale.
Ma forse è troppo tardi, nel senso che i buoi potrebbero già essere scappati. Intellettuali e studenti considerano il marxismo-leninismo, anche nella sua versione maoista, quale dottrina del tutto sorpassata dagli avvenimenti storici e, per questo motivo, oggi non spendibile.
A ciò si aggiunga il fatto che Xi Jinping, dopo aver fortemente auspicato nei mesi scorsi la diffusione nel Paese della “rule of law” di origine britannica, ora attacca con violenza coloro che parlano di stato di diritto e di società civile.
Dal che si deduce chiaramente che il PCC non sopravviverebbe se la “rule of law” si diffondesse davvero nella nazione. Facile, in quel caso, prevedere un’implosione in tempi piuttosto brevi del partito stesso.
Penso abbiano ragione gli analisti che considerano l’aggressività dell’attuale politica estera cinese come strumento per incanalare il disagio interno verso altri obiettivi. Resta tuttavia da capire fino a quando il governo (cioè il partito) riuscirà a continuare il gioco con successo.
Featured image, Chiang Kai-shek and Mao Zedong toasting together in 1946 following the end of World War II