di Michele Marsonet. E’ sorprendente constatare quanto sia difficile il superamento delle immagini fornite dai libri di storia. Spesso si cristallizzano da sole e la memoria gioca dei brutti scherzi, impedendo di notare che i tempi sono nel frattempo cambiati (a volte anche in modo radicale).
Si prenda quale esempio la Costituzione giapponese. Di essa è stato detto – analogamente a quella italiana – che è la più bella del mondo. Scritta dagli Alleati che sconfissero l’Impero del Sol Levante nel 1945, è pacifista nel senso pieno del termine. All’articolo 9 leggiamo che il Giappone rinuncia per sempre alla guerra, allo stesso diritto di belligeranza e al possesso di esercito, marina e aviazione. Unica concessione la presenza di “forze di autodifesa” assai limitate.
Proprio per questi motivi un gruppo di pacifisti nipponici ha candidato la Costituzione (e di conseguenza l’intero popolo giapponese) al Premio Nobel per la pace. Non penso ci siano molte speranze che la richiesta, per la verità alquanto bizzarra, venga accolta. Tuttavia da Stoccolma fanno sapere che la domanda è, dal punto di vista formale, in regola, e verrà quindi valutata come tutte le altre.
Credo tutti sappiano qual è la posta in gioco. Quando si parla di Giappone vengono subito in mente due immagini. La prima è quella di un Paese ipertecnologico e risorto dalle ceneri del secondo conflitto mondiale diventando in pochi decenni la terza economia mondiale. Era la seconda fino a poco tempo fa, ma in seguito ha dovuto cedere il secondo posto alla Cina in pieno boom economico-finanziario.
L’altra immagine, assai radicata nonostante siano trascorsi tanti anni, si riferisce all’Impero che nel 1941 diede inizio alla guerra nel Pacifico attaccando a sorpresa la grande base americana di Pearl Harbor, e dilagando poi in tutta l’Asia orientale.
Le truppe e le navi da battaglia imperiali s’impadronirono in breve tempo di un territorio immenso che andava da una gran parte della Cina alla Birmania, passando per l’Indonesia. Era il sogno della “Sfera di co-prosperità della Grande asia Orientale”, che in realtà nascondeva l’ambizione nipponica di diventare la nazione egemone in quella parte del mondo impadronendosi con la forza delle materie prime di cui il Giappone è da sempre carente.
Più o meno siamo tutti rimasti fermi ad alcuni stereotipi. I soldati che combattono come samurai, i kamikaze che s’immolano per affondare le portaerei USA, la devozione per un Imperatore considerato di discendenza divina, i superstiti che restano nella giungla per decenni rifiutando di credere alla sconfitta.
Nel mentre l’area del Pacifico è totalmente cambiata con l’emergere della potenza cinese, dapprima sul piano economico e ora anche a livello militare. La Repubblica Popolare Cinese ha adottato un approccio espansivo che sta aumentando la tensione con tutti i Paesi vicini. Si tratta però di nazioni piccole, mentre il Giappone non lo è da alcun punto di vista.
Perché meravigliarsi, quindi, che il premier Shinzo Abe abbia intrapreso una strada che porta dritta alla revisione della vecchia Costituzione, consentendo un potenziamento delle forze armate che potrebbero condurle a spingersi – per la prima volta dopo la sconfitta – in zone lontane dal territorio metropolitano? Si tratta di un’ipotesi non sgradita a Paesi come Vietnam, Filippine e Taiwan, assai preoccupati dalla crescente incertezza USA nel Pacifico sotto la presidenza di Barack Obama.
Più che pensare a Pearl Harbor e ai kamikaze, l’opinione pubblica e gli organismi internazionali dovrebbero insomma comprendere che, ai nostri giorni, il pericolo vero è costituito dal colosso cinese. Un rafforzamento militare giapponese potrebbe contribuire a un riequilibrio in questa importantissima area del globo, facendo capire alla leadership di Pechino che certi limiti non possono essere superati.
Featured image, aerial view of Pearl Harbor, Ford Island in center. The Arizona memorial is the small white dot on the left side above Ford Island