Dopo più di nove anni, a marzo dell’anno scorso ho deciso di smettere di prendere l’anti depressivo. Mi sentivo, all’alba dell’uscita del mio secondo libro, molto più forte di allora, quando avevo iniziato a prenderlo. Sì, perché nove anni fa anni facevo davvero una vita diversa.Avevo da qualche mese partorito Emma, la mia terza figlia, e stavo per laurearmi; avevamo deciso di traslocare a Cambridge, dopo otto anni bellissimi di Brooklyn, e avevo non solo Luca e Sofia, ma anche Emma da allattare ogni due per tre, gli scatoloni da fare e gli ultimi esami da dare. In più c’era da vendere casa lì cercare casa qui, trovare le scuole per i bambini, organizzare i servizi per Luca. Dan doveva cercare lavoro. Insomma, un periodo difficilissimo.Trovammo un piccolo appartamento a Cambridge, all’inizio da affittare ma poi da comprare, e vendemmo la maggior parte dei nostri mobili che non ci sarebbero stati. Svuotammo finalmente gli scatoloni e dopo un mese esatto ci fu detto che non avremmo potuto comprare l’appartamento perché il padrone di casa lo aveva ristrutturato senza permessi. Per cui mi rimisi a rifare gli scatoloni e a cercare casa, che finalmente trovammo. Quando tutto era sistemato (scuole, terapie per Luca, lavoro per Dan) crollai. Il primo attacco di panico mi venne di notte: mi sveglia di colpo facendo uno scatto in piedi e spiegai a Dan che stavo morendo, che non riuscivo a respirare, e di cercare di fare il suo meglio da solo con i bambini. “Don’t forget to tell them I love them”. Qualche giorno dopo presi la macchina e andai al pronto soccorso per un altro attacco di panico. Tre giorni dopo tornai dal medico, con Emma nel passeggino che piangeva perché aveva fame, ma l’ansia e la depressione mi avevano asciugato il seno. La dottoressa mi prescrisse degli antidepressivi e mi disse di cominciare a dare a Emma il latte artificiale. Dopo qualche mese cominciai a stare sempre meglio.Da allora sono riuscita a fare tante cose e a costruirmi una specie di carriera: sono riuscita a laurearmi, a scrivere prima un libro, poi un altro. Ho cominciato questo blog, ho fatto tanti viaggi in Italia, ho collaborato con testate straordinarie come Smemoranda, e Linus, scrivo sul sito di Nicoletti, l’eroe italiano dei ‘teppautistici’. A marzo quindi ho deciso che ero pronta per camminare da sola. All’inizio è andata benone - fare presentazioni in giro per l’Italia è il più potente anti depressivo che ci sia: ho parlato della mia vita con Luca, ho incontrato mille persone tutte belle, ho viaggiato, mangiato, bevuto, fatto le tre di notte a chiacchierare sui gradini delle chiese nel centro di Bologna, o di Milano.Poi sono tornata e ho cominciato ad accusare un senso di vuoto. Niente di piùnormale, mi continuavo a dire. Non riuscivo più a scrivere (“è normale”, mi dicevano), o a essere produttiva (“datti del tempo”, ripetevano). Poi ho cominciato a passare gran parte delle giornate seduta in poltrona, a guardare fuori dalla finestra, senza pensare assolutamente a niente. Passavano le ore e i giorni senza che io riuscissi ad andare a fare una passeggiata, o a a fare la spesa, che faceva Dan prima di arrivare a casa. Arrivava e cucinava, poi faceva la cucina. Io mettevo a letto Emma e quando si addormentava, andavo a coricarmi sul letto di Luca, ad ascoltare incessantemente la stessa canzone; oppure andavo su quello di Sofia, a dirle che anche oggi ero un po’ giù. Poi ho cominciato a pensare che il mio matrimonio fosse in crisi, che dopo tanti anni insieme ormai cos’abbiamo più da dirci. Poi ho cominciato a sentire un peso dentro nel petto enorme. L’inizio dell’ansia. Il mio incubo.Ci ho impiegato un mese, spinta da Dan e da un’amica, ma sono riuscita finalmente a chiamare la dottoressa, per dirle che volevo fare un esame del sangue perché forse era la tiroide. Mi ha ascoltato e poi, con calma, mi ha detto: “Marina, ti conosco ormai da nove anni: soffri di depressione e ci hai provato senza e sei stata brava, ma a volte bisogna anche accettare di aver bisogno di un farmaco per stare bene. Poi facciamo anche l’esame del sangue, ma se vuoi uscire da questo periodo così difficile, sai bene cosa fare. A volte andare in palestra serve, ma a volte invece non basta”. Parlare di depressione ha un retrogusto di tabù, sempre. Si pensa, anche se non sempre lo si dice, che siano tutte seghe mentali, si pensa che a volte l’idea di ‘un calcio nel sedere e vai a lavorare’ sia l’attitudine giusta a un problema ch però è purtroppo reale e difficile da gestire. Si pensa che sono cose personali, da non condividere in un blog. Beh, come si può notare, io non sono d’accordo: credo che le testimonianze siano importanti e utili, e non mi vergogno ad ammettere di soffrire di depressione. Sono fortunata perché non sono mai arrivata neanche lontanamente a pensare al suicidio. Eppure quando leggo di persone che soffrono ben più di me e si suicidano, il mio primo pensiero è: “hanno smesso di soffrire. Sono coraggiosi”. Prendo la mia pillolina tutte le mattine, con la spremuta d’arancia che mi faccio per colazione. Mi sembrava di aver fatto duemila passi indietro a prenderla, ma ogni giorno mi sento meglio, e comincio a stare meglio anche con gli altri. Ho ripreso a scrivere, ma soprattutto, a pensare.A volte la chimica è la soluzione migliore.