“Chi parla solo dialetto è un ignorante, chi parla il dialetto e l’italiano è bilingue”. Questa la battuta del
Sandro Allegrini
grande studioso magionese Giovanni Moretti che, insieme al suo maestro Francesco Ugolini, inventò, nel nostro ateneo, la dialettologia come ramo specialistico della linguistica. La frase di Moretti torna d’attualità, anche in relazione a posizioni integraliste, orientate alla strumentalizzazione del rinnovato interesse verso le parlate locali. Al di là delle chiacchiere sotto l’ombrellone, la questione va ricondotta entro le corrette coordinate scientifiche e antropologiche nel cui ambito il dialetto si posiziona. Insomma, secondo l’Accademia del Dónca (che ho fondato insieme al poeta e scrittore Walter Pilini) non si tratta di pensare all’“ora di dialetto” nelle scuole o ad altre risibili ipotesi pseudo-pedagogiche. Tutti i cittadini italiani debbono innanzitutto possedere, in modo approfondito e consapevole, i codici della comunicazione nazionale. E sbaglia la scuola quando non si preoccupa di fornire una perfetta conoscenza delle questioni grammaticali, ortografiche, sintattiche, lessicali, storico-evolutive e socio-linguistiche. La proluvie di “progetti didattici” che travolge l’insegnamento deve opportunamente coniugarsi con lo studio della lingua e della letteratura nazionale.
Simona Esposito, Costanza Bondi e Sandro Allegrini
Non sostituirsi ai curricoli. Altrimenti i giovani vengono scippati del loro diritto alla formazione e alla conoscenza. Altra esigenza è la doverosa riflessione posta intorno alle radici linguistiche e antropologiche della comunità d’origine che si riconosce nell’uso di un codice ristretto. In fondo – con l’inevitabile approssimazione di una facezia – è corretto definire la lingua come “un dialetto che ha fatto carriera”. Nella fattispecie dell’italiano, la fortuna è quella della parlata toscana del Duecento, poi letterarizzata dai grandi del Trecento e divenuta lingua nazionale. Lo stesso Manzoni si peritò, per esplicita dichiarazione, di “risciacquare i panni in Arno”. Non si creda, peraltro, che parlare con espressività, e soprattutto scrivere in dialetto, sia operazione facile e “popolare”. Non è un caso che gli autori in lingua perugina – da Claudio Spinelli ad Artemio Giovagnoni, da Federico Berardi a Ennio Cricco, da Lodovico Scaramucci a Umberto Calzoni – siano tutti personaggi appartenenti ad un milieu artistico di raffinata cultura. D’altronde, viene unanimemente riconosciuta al dialetto una notevole importanza come strumento di comunicazione primaria. Né va trascurato l’elevato numero di autori che, una volta sdoganato il proprio idioma di riferimento dai confini della subcultura, si esprimono e pubblicano nella lingua del Grifo. E non tanto le tradizionali battute ridanciane, ma anche la riflessione esistenziale, il discorso intimista, l’osservazione della vita e degli innumerevoli modi di stare al mondo. Peraltro la lingua locale, un tempo demonizzata dalla scuola dei “belli parlari”, riemerge in ogni contesto: perfino in territorio giovanile, di solito non attraversato dai rigurgiti della conservazione. Quindi, da elemento di esclusione, il dialetto è divenuto fattore fortemente inclusivo. Prova ne sia l’elevato e crescente numero di iscritti all’Accademia del Dónca, provenienti da altre regioni e perfino da altri Paesi. Segno che il dialetto e i suoi codici riscuotono l’interesse di quanti desiderano integrarsi nella comunità che li ospita. Fa indubbiamente un certo effetto sentire degli orientali esprimersi “col dónca”. Ma, nella società del melting pot e della contaminazione tra culture, la circostanza non stupisce più di tanto.
Sandro Allegrini