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Sul ruolo del linguaggio in filosofia

Creato il 08 maggio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Wittgenstein (second from right), Summer 1920

Wittgenstein (second from right), Summer 1920

di Michele Marsonet. L’importanza del linguaggio ai fini della speculazione filosofica è stata compresa fin dai primordi del pensiero occidentale. Basti rammentare le molte considerazioni sul linguaggio presenti nei dialoghi platonici e nelle opere aristoteliche per dare subito sostanza a tale rilievo, mentre è noto il carattere in larga parte linguistico dell’indagine di parecchi autori medievali. Dobbiamo allora chiederci: perché il linguaggio è sempre stato giudicato importante dai filosofi? O, ancor meglio, perché ha assunto addirittura un peso preponderante nelle elaborazioni teoriche di alcune correnti di pensiero contemporanee?

Per rispondere a simili domande, dobbiamo innanzitutto cercare di capire cos’è il linguaggio e, a dispetto delle apparenze, non si tratta affatto di un compito facile. Parto dalla constatazione, di per sé piuttosto ovvia, che noi tutti, in quanto esseri umani, usiamo il linguaggio per comunicare con i nostri simili, e quindi per scambiarci informazioni, impressioni e sensazioni. Facendo questo, inoltre, riusciamo a comunicare ai nostri interlocutori giudizi circa la realtà (il mondo) circostante, il che ci conduce a fissare un primo punto di fondamentale importanza. Il nostro rapporto con (a) la realtà, e con (b) gli altri esseri umani, è sempre un rapporto che ha bisogno della “mediazione” del linguaggio. Quest’ultimo, pertanto, si caratterizza come il principale veicolo che abbiamo a disposizione per dare ordine, da un lato, alla nostra esperienza del mondo e, dall’altro, ai nostri rapporti sociali.

Detto questo, abbiamo già fatto un passo innanzi nel tentativo di fornire risposta al quesito sopra formulato: cos’è il linguaggio? Non abbiamo tuttavia esaurito la complessità di tale domanda, ragion per cui dobbiamo spingerci più oltre. Riflettendo, giungiamo a capire che il linguaggio è composto da parole, ma le parole stesse, qualora vengano considerate in isolamento, non dicono granché. Sappiamo che la parola “tavolo” si riferisce a certi oggetti fisici presenti nel mondo: essa può significare sia il tavolo su cui ho posato ora i miei libri, sia qualsiasi altro oggetto che ha in comune con questo certe caratteristiche ben determinate. Ma il pronunciare la parola “tavolo”, di per sé, non significa molto: dobbiamo sempre inserirla in un “contesto” e unirla ad altre parole se vogliamo pronunciare discorsi dotati di senso.

Ecco quindi che le parole isolate acquistano significato solo se vengono inserite in unità più vaste: le proposizioni. Si tratta, in sostanza, di aggregati di parole il cui compito non è più quello di riferirsi a un oggetto particolare, come accadeva appunto per le parole, bensì esprimere dei fatti, degli eventi o delle situazioni che si verificano nel mondo. Possiamo, ad esempio, utilizzare ancora la parola “tavolo” inserendola in un contesto più vasto come: “il tavolo presente in questa stanza ha queste e quest’altre caratteristiche”. Utilizziamo allora più parole concatenate tra loro per esprimere un fatto presente nel mondo, ed “esprimere”, in questo caso, significa “dare un’immagine”. Abbiamo in primo luogo un certo fatto presente nel mondo: il fatto che il tavolo in questa stanza ha certe caratteristiche (e non altre). A tale fatto, che noi visualizziamo, associamo un’immagine mentale. Infine, esprimiamo tale immagine verbalmente pronunciando la proposizione di cui sopra: “Il tavolo in questa stanza ha le caratteristiche x, y, z”. Si noti tuttavia che l’espressione verbale è necessaria solo ai fini della comunicazione con i nostri simili: esiste anche un “linguaggio della mente” che non sempre trova espressione a livello verbale (o della parola scritta).

Giunti a questo punto, è importante rammentare che una proposizione può essere vera oppure falsa. Non si dà, secondo la logica classica di derivazione aristotelica, una via di mezzo (“tertium non datur”). In realtà questa è una semplificazione, in quanto tra il vero e il falso esiste una vasta gamma di possibilità intermedie, di gradi. Ma la cosa in questa sede non interessa, in quanto, a livello introduttivo, la divisione delle proposizioni in vere e false ci fornisce un modello utile dal punto di vista pratico e di immediata comprensibilità.

Ora, il fatto di poter essere unicamente vere o false, e quindi affermate o negate, è ciò che distingue le proposizioni dalle interrogazioni (le quali possono essere “rivolte” a qualcuno, ma non affermate o negate), dai comandi (i quali possono essere “dati” o “impartiti”, ma non affermati o negati), e dalle esclamazioni (che possono essere “espresse” con un particolare tono di voce, ma non affermate o negate). Interrogazioni, comandi ed esclamazioni non possono insomma, a differenza delle proposizioni, essere giudicati veri o falsi. Cerco quindi di chiarire ancor più quanto ho appena detto.

PROPOSIZIONE: Pietro ha chiuso la porta.

E’ vera se Pietro ha in effetti chiuso la porta.
E’ falsa se Pietro non ha chiuso la porta.
Non esistono altre possibilità
(“tertium non datur”).
Può essere dunque affermata o negata.
Non può mai essere affermata e negata nello stesso tempo.

INTERROGAZIONE: Hai chiuso la porta?

Non è vera né falsa.
Non può essere giudicata vera o falsa.
Può essere rivolta a qualcuno (per es. a Pietro, che era il soggetto della proposizione precedente).
Non può dunque essere affermata o negata.

COMANDO: Chiudi la porta!

Non è vero né falso.
Non può essere giudicato vero o falso.
Può essere dato a qualcuno (per es. a Pietro).
Non può dunque essere affermato o negato.

ESCLAMAZIONE: Se solo fossi ricco!

Non è vera né falsa.
Non può essere giudicata vera o falsa.
Può essere espressa con un particolare tono di voce
(si noti il diverso ruolo che “!” svolge, rispettivamente,
in comandi ed esclamazioni).
Non può dunque essere affermata o negata.

In termini più generali, possiamo anche dire che le proposizioni possono essere affermate o negate in base a uno “stato di cose” presente nel mondo (realtà). In particolare, per appurare se “Pietro ha chiuso la porta” è vera o falsa, dovrò accertare se, nella realtà, Pietro ha effettivamente chiuso la porta oppure no. Se l’ha fatto la proposizione è vera, altrimenti è falsa. L’assegnazione dei valori di verità Vero e Falso alla proposizione in questione avviene, pertanto, in base al verificarsi o meno di un certo stato di cose nel mondo (vale a dire, il fatto che Pietro abbia o non abbia chiuso la porta).

Ciò non vale, invece, per interrogazioni, comandi ed esclamazioni. “Hai chiuso la porta?” non è vera né falsa. Sarà invece vera o falsa, e potrà quindi essere affermata o negata, la risposta all’interrogazione. In particolare, se io rivolgo a Pietro quella domanda, ed egli mi risponde “Sì, l’ho chiusa”, tale risposta sarà vera o falsa, e potrà pertanto essere affermata o negata, in base allo stato di cose corrispondente. Anche “Chiudi la porta!”, dal canto suo, non è vera né falsa.

Faccio notare, ancora una volta, la collocazione di proposizioni, interrogazioni, comandi ed esclamazioni a livello linguistico. Soltanto mediante il linguaggio si possono affermare o negare le proposizioni, rivolgere le interrogazioni, dare i comandi ed esprimere le esclamazioni. Ed è necessario, giunti a questo punto, introdurre un’altra distinzione fondamentale: quella tra proposizioni ed enunciati. Quando pronuncio un’affermazione o una negazione, faccio due cose distinte:

(a) pronuncio una serie di suoni fisici, che corrispondono alle lettere dell’alfabeto.

(b) pronuncio dei suoni i quali, combinati in un certo modo, possiedono un determinato significato.

La serie di suoni fisici da me pronunciata si chiama enunciato, mentre il significato che tali suoni acquistano quando vengono combinati in un certo modo è, propriamente, la proposizione. E’ piuttosto facile comprendere questa distinzione. Consideriamo infatti due enunciati diversi come i seguenti:

Carlo ama Laura

Laura è amata da Carlo

Tali enunciati sono evidentemente diversi. Il primo è formato da tre parole, il secondo da cinque; il primo è formato da 13 lettere dell’alfabeto, il secondo da 18; i termini “Carlo” e “Laura” compaiono in entrambi gli enunciati, ma occupano in essi posizioni differenti. E tuttavia, è facile comprendere che i due diversi enunciati hanno lo stesso significato, vale a dire, esprimono lo stesso stato di cose: il fatto che Carlo ama Laura. Esprimiamo questa situazione dicendo che la serie di suoni fisici – l’enunciato – esprime un significato: la proposizione. La proposizione è dunque ciò che intendiamo dire pronunciando fisicamente un enunciato.

Tutto questo permette di fare un passo innanzi decisivo, in quanto ci porta al cuore del problema: la problematizzazione filosofica del linguaggio. Ed è proprio il termine “linguaggio” che offre lo spunto per avanzare considerazioni assai importanti. In realtà, quando parliamo di linguaggio nella vita quotidiana, non attribuiamo a tale termine le caratteristiche estremamente generali che gli ho dato sin qui. Parliamo, piuttosto, di “linguaggi” o, ancor meglio, di “lingue”. Queste lingue, che sono assai ben determinate sia strutturalmente che storicamente, sono per esempio l’italiano che sto usando in questo momento, il francese, l’inglese, il tedesco, il russo, etc. Quando diciamo che qualcun altro sta parlando o scrivendo, di solito intendiamo dire che lo fa utilizzando una lingua particolare, composta da un certo numero di termini e di regole.

Il filosofo che studia il linguaggio, tuttavia, adotta un punto di vista diverso e, interrogato circa la natura del linguaggio, avanzerà argomentazioni di questo tipo. D’accordo, ognuno di noi utilizza per comunicare una certa lingua ben determinata dal punto di vista strutturale e storico, ed è ovvio che questo è l’unico modo che abbiamo a disposizione per comunicare con i nostri simili. Ma, riflettendo, è altrettanto ovvio che tutte le lingue storicamente esistenti (e anche quelle “morte” come l’etrusco o l’antico egizio) debbono pur avere in comune alcune caratteristiche generali che consentono di dire che ognuna di esse è, per l’appunto, una lingua e non un semplice insieme di segni e suoni sconnessi e privi di senso. E sono proprio tali caratteristiche generali a fornire dei criteri di intertraducibilità, a far sì che, date certe condizioni, gli italiani riescano a comunicare con gli inglesi e i francesi, oppure a decifrare le iscrizioni che gli etruschi e gli antichi egizi ci hanno lasciato. Ecco allora che tutte le lingue storiche manifestano certe caratteristiche strutturali comuni, il che permette di parlare non più di “linguaggi” soltanto, ma anche di “linguaggio”, inteso come strumento che l’uomo utilizza per comunicare e per esprimere le situazioni presenti nel mondo.

Si noti, però, che non siamo ancora sul terreno specificamente filosofico. Accanto agli studiosi delle lingue storiche, abbiamo anche coloro che si occupano proprio delle caratteristiche strutturali comuni che esse possiedono. La scienza, al contempo empirica e sociale, che prende in considerazione tali caratteristiche è la linguistica, disciplina antichissima e che ha conosciuto un enorme sviluppo negli ultimi secoli. La linguistica è ovviamente molto interessante per il filosofo (come del resto qualsiasi scienza), ma “non” è filosofia. Se vogliamo dunque avvicinarci ancor più alla problematizzazione filosofica del linguaggio, dobbiamo compiere un ultimo passo, il quale può essere utilmente illustrato introducendo un esempio concreto.
Prima abbiamo parlato della differenza tra “enunciati” e “proposizioni”, identificando i primi come emissioni di suoni fisici, e le seconde come i significati che a essi attribuiamo. La differenza tra enunciati e proposizioni diventa ancora più evidente se consideriamo quest’altro fatto:

(1) Piove
(2) It is raining
(3) Es regnet

sono tre enunciati che appartengono, rispettivamente, a tre lingue diverse. Si tratta quindi di enunciati differenti, composti da un diverso numero di lettere dell’alfabeto e da un diverso numero di parole. Tuttavia essi hanno lo stesso significato, e tale significato comune è proprio la proposizione, della quale ciascuno degli enunciati (1)-(3) rappresenta una formulazione fisicamente diversa. Il filosofo che riflette sul linguaggio, pertanto, non prende in considerazione le differenze formali riguardanti i vari linguaggi naturali come l’italiano, l’inglese o il tedesco, poiché questo è compito del linguista. Gli interessa, invece, il linguaggio “in quanto tale”, il linguaggio usato da ogni parlante al fine di esprimere le proposizioni (i significati degli enunciati). Inteso in questo senso, il linguaggio è un’entità che trascende le varie lingue storiche, mentre ognuna di esse può essere in ultima analisi considerata una manifestazione del linguaggio quale strumento di comunicazione del genere umano.

Finora mi sono mossi a livello di linguaggio ordinario, vale a dire del linguaggio quotidiano che usiamo tutti i giorni, e tale linguaggio è intrinsecamente ambiguo. L’ambiguità è un segno di ricchezza, ma dal punto di vista del filosofo essa complica parecchio le cose: basti pensare che, proprio a causa dell’ambiguità, nel linguaggio quotidiano le parole possono avere più di un significato. Ne consegue che il compito di ricercare le relazioni logiche tra le proposizioni è reso più difficile dagli aspetti casuali ed ingannevoli propri della struttura del linguaggio ordinario. Il filosofo del linguaggio e il logico, pertanto, prendono sì in esame il linguaggio ordinario, ma per depurarlo dalle sue ambiguità e costruire un linguaggio artificiale il quale, benché più povero di quello quotidiano, risulta però molto più preciso. E’ questo il procedimento di formalizzazione (o simbolizzazione) del linguaggio che ci fa parlare di logica “formale” o “simbolica”. La costruzione di un linguaggio formale o simbolico ci consentirà ad esempio di riconoscere meglio – e con maggiore precisione – gli argomenti validi da quelli che non lo sono.

Il nostro linguaggio ordinario è uno strumento non soltanto potente, ma anche sottile e complicato. E’ quindi facile perdere di vista la grande molteplicità dei suoi usi semplificando troppo gli scopi con cui lo usiamo. Ludwig Wittgenstein ha per esempio rilevato nella sua opera “Ricerche filosofiche” che vi sono innumerevoli usi diversi di quelli che noi chiamiamo “simboli”, “parole” e “frasi”. Tra gli esempi proposti da Wittgenstein rammentiamo il dare ordini, il descrivere l’aspetto di un oggetto, il descrivere un avvenimento, il formulare un’ipotesi, il recitare, il fare uno scherzo e raccontarlo, il tradurre da una lingua a un’altra, l’interrogare, il ringraziare, il salutare, il pregare, e via dicendo.

In realtà, si può mettere un certo ordine nella molteplicità degli usi del linguaggio ordinario dividendo tali usi in tre categorie generali. Si tratta indubbiamente di una semplificazione, ma essa non è comunque molto distante da ciò che avviene nella vita di tutti i giorni.

(1) Uso informativo: il primo di questi usi è quello di fornire e comunicare informazioni. Di solito tale funzione si svolge affermando e negando proposizioni, e il discorso informativo è usato per descrivere il mondo e per ragionarvi sopra. La scienza costituisce l’esempio tipico – anche se non certo l’unico – di discorso informativo.

(2) Uso espressivo: il secondo di questi usi è quello di esprimere sentimenti e stati d’animo. Mentre la scienza è un tipico discorso informativo, la poesia ci offre i migliori esempi di discorso espressivo. Ciò che è in gioco in questo genere di discorso non è la conoscenza, bensì le emozioni e i sentimenti (i versi poetici non hanno la funzione primaria di darci informazioni sul mondo). Ovviamente, non ogni linguaggio espressivo è poesia, proprio come non ogni linguaggio informativo è scienza. Il discorso espressivo in quanto tale non è vero né falso. Se applicassimo soltanto il criterio del Vero e del Falso, della correttezza e della scorrettezza a un discorso espressivo come un poema, ne trascureremmo il significato essenziale e ne perderemmo il valore primario.

(3) Uso direttivo: il terzo di questi usi è, infine, quello direttivo. Esso ha luogo quando il linguaggio viene usato al fine di causare, o di impedire, una certa azione. L’esempio più evidente è fornito dai comandi e dalle richieste. Anche il discorso direttivo non è vero né falso: possiamo essere in accordo o disaccordo sul fatto che qualcuno abbia obbedito a un comando, ma il comando in se stesso non ha alcun valore di verità.

Qualche parola, per concludere, circa il significato da attribuire alla filosofia analitica. Dalla corretta constatazione che il linguaggio è una delle più significative acquisizioni del genere umano e che, in quanto tale, costituisce un naturale oggetto di problematizzazione filosofica, non dobbiamo passare alla conclusione – sostenuta dagli esponenti più estremisti della tradizione analitica – che (a) linguaggio e realtà sono la stessa cosa, oppure che (b) l’analisi del linguaggio è l’unico compito che spetti al filosofo. Dobbiamo insomma riconoscere che il comportamento linguistico è un sottoinsieme del comportamento umano inteso nell’accezione più vasta, in quanto il comportamento non linguistico svolge un ruolo essenziale nella nostra vita quotidiana.

In altri termini, ridurre la realtà al linguaggio è fonte di problemi, i quali possono essere superati solo concependo il linguaggio stesso come uno “strumento” – certamente molto importante – che è nato dopo l’uomo, e che può essere in sostanza caratterizzato come una risposta di tipo adattivo all’ambiente. Questa concezione naturalistica ci pone al riparo dal pericolo di vedere il linguaggio come una sorta di struttura “a priori”, dotata di caratteri misteriosi e la cui presenza non può in sostanza essere spiegata in modo razionale.


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