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Sul ruolo del linguaggio in filosofia, dal TRACTATUS di Wittgenstein a Piero Sraffa.

Creato il 24 maggio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Piero Sraffa

Piero Sraffa

di Michele Marsonet. Riprendendo quanto detto in precedenti articoli, torno brevemente alle tesi del primo Wittgenstein circa la natura delle proposizioni: la sua teoria “raffigurativa” delle medesime. Secondo tale teoria, tutte le proposizioni genuine sono composte da elementi che “raffigurano” qualche possibile stato di cose nel mondo (le proposizioni dicono “come stanno le cose”). Nel “Tractatus” sostiene che rappresentiamo i “fatti” a noi stessi utilizzando elementi figurativi (i termini) ordinati in varie maniere. L’idea gli venne leggendo un articolo di giornale, nel quale si menzionava che nel tribunale di Parigi erano utilizzati dei modellini in scala per riprodurre gli incidenti automobilistici. In quei casi, i modellini di automobili venivano disposti in varie maniere per rappresentare tutti modi possibili in cui gli incidenti avrebbero potuto aver luogo, con la speranza di riuscire a scoprire l’andamento reale degli incidenti.

Wittgenstein, partendo dall’utilizzazione dei modellini di automobili, capì che gli incidenti avrebbero potuto essere rappresentati anche usando, ad esempio, mele o gessetti; la cosa, importante, insomma, non era il modellino di automobile, bensì la funzione che esso svolgeva nel contesto. Di qui la conclusione che la raffigurazione, al fine di rappresentare uno stato di cose, deve avere i seguenti requisiti minimali:

(i) sapere “per cosa” stanno gli elementi raffigurativi che abbiamo scelto (ad es.: “questa mela sta per la mia Fiat 600”);
(ii) gli elementi raffigurativi debbono essere disposti in una maniera che corrisponda al modo in cui le cose “potrebbero” essere ordinate.

E’ proprio in questo modo che una proposizione ordina i nomi (che sono i suoi elementi costitutivi), così da concordare o meno con la realtà. Ovviamente possiamo rappresentare il mondo in modo vero o falso, e più o meno accuratamente. Posso per esempio dire che la mia mano destra ha soltanto due dita e, dal momento che essa ne ha in effetti cinque, una simile proposizione è falsa. Ma, nonostante la sua falsità, tale proposizione è pur sempre comprensibile: è dotata di senso. Non è una proposizione priva di significato come “Il mio dito ha solo due mani”, la quale non rappresenta alcunché. Dunque, la naturale connessione nel caso di ogni rappresentazione genuina del mondo è che essa è dotata di senso rispetto a qualche possibile stato di cose.

Nel “Tractatus” resta aperto un interrogativo importante: come possiamo sapere quando una rappresentazione descrive veramente il mondo? Wittgenstein risponde che la rappresentazione stessa non ci fornisce la risposta. Niente, nella rappresentazione, ci consente di dire se essa è in accordo o meno con la realtà. Per saperlo, dovremmo stare al di fuori del nostro strumento di rappresentazione (che è il linguaggio), così da poter mettere a confronto diretto la rappresentazione e il mondo. Ma non possiamo farlo giacché, secondo il filosofo austriaco, i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo. Possiamo soltanto sapere che le nostre rappresentazioni linguistiche sono a volte vere e a volte false, mentre nei casi più importanti (la natura dell’etica, l’esistenza di Dio, etc.), l’unica strada è il silenzio: i limiti del nostro linguaggio non ci consentono di parlare di simili problemi in modo significante.

A partire dai tardi anni ’20 del secolo scorso il pensiero di Wittgenstein attraversa una profonda evoluzione. Recatosi in Inghilterra, dove più tardi ottenne a Cambridge la cattedra che era stata di George E. Moore (figura di primo piano del pensiero analitico britannico e autore della celebre opera “Principia Ethica”), il filosofo viennese manifestò un crescente scetticismo circa la reale capacità della logica di analizzare in modo soddisfacente il linguaggio quotidiano. Fu l’economista Piero Sraffa (esule a Cambridge dopo l’avvento del fascismo), con il suo pragmatismo tipicamente napoletano, a convincere il filosofo austriaco a rivedere il punto di vista sostenuto nel “Tractatus”.

C’è infatti un aneddoto che chiarisce bene questo punto. Secondo un racconto che pare risalire allo stesso Wittgenstein, egli insisteva in una discussione con Sraffa che una proposizione e ciò che essa descrive debbono avere la stessa “forma logica” o, il che è equivalente, la stessa “grammatica”. A tale considerazione Sraffa, con un gesto usuale in Italia, si passò la punta delle dita di una mano sotto il mento e domandò: “Qual è la forma logica di questo?” L’esempio concreto formulato da Sraffa avrebbe convinto Wittgenstein della non validità della teoria sostenuta nel “Tractatus” secondo cui una proposizione è semplicemente una “immagine” della realtà che descrive. Tutto ciò è molto importante poiché, indipendentemente dalla reale portata dell’episodio, le conversazioni con Sraffa indicarono a Wittgenstein un modo più “antropologico” (e meno “logico”) di affrontare i problemi filosofici.

Nella sua prima opera Wittgenstein non aveva attribuito molta importanza al linguaggio quotidiano, considerandolo irrimediabilmente ambiguo e confuso. Svanita l’illusione di poter costruire mediante la logica formale una lingua perfetta e del tutto perspicua, l’ambiguità del linguaggio ordinario diventa nella seconda fase del suo pensiero un segno di ricchezza, e non più sintomo di un’imperfezione da correggere ad ogni costo. Ecco quindi l’apertura alla dimensione sociale del linguaggio, il quale viene ora considerato un complesso di espressioni che svolgono funzioni tra loro assai diverse (e quindi non soltanto quella del nominare) nell’ambito di pratiche che il filosofo viennese chiama giochi linguistici. “Non cercate il significato, cercate l’uso” diventa la sua massima favorita, e il suo secondo capolavoro, le “Ricerche filosofiche” (pubblicato postumo negli anni ’50), è centrato proprio sull’affermazione che il significato di una parola altro non è che il suo “uso” all’interno del linguaggio.

Come ho notato in precedenza, nel primo stadio della sua evoluzione filosofica Wittgenstein pensava che tutte le forme di linguaggio che pretendano di essere dotate di significato consistono di proposizioni, così che il principale compito del filosofo dovrebbe essere quello di spiegare la natura delle proposizioni medesime. Non solo: lungo tali linee, la maggior parte del nostro linguaggio quotidiano finisce col diventare non semplicemente falso ma, il che è peggio, addirittura sprovvisto di significato. Se la verità di una proposizione consiste nel rappresentare accuratamente la realtà, allora dobbiamo stabilire in modo esatto quale tipo di entità è “rappresentato” da ciascun nome. E’ piuttosto chiaro che, adottando una simile linea d’indagine, il linguaggio ordinario può essere tutto tranne che un insieme di pratiche sociali: esso finisce infatti per essere una sorta di gioco assai astratto, e non una cosa vivente costruita da comunità umane al fine precipuo di soddisfare le loro necessità pratiche. La teoria rappresentativa del linguaggio sostiene dunque che le parole del linguaggio denominano oggetti, mentre le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni. Ogni parola ha un significato, ed esso è associato alla parola: è l’oggetto per il quale la parola sta.

Nelle “Ricerche” tale quadro viene sottoposto a un esame critico. Infatti – afferma il secondo Wittgenstein – se noi descriviamo l’apprendimento del linguaggio in questa maniera, stiamo parlando di nomi quali “tavolo” e “sedia”, oppure di nomi propri di persone, e solo secondariamente di nomi che si riferiscono ad azioni e proprietà. Che succede, dunque, agli altri tipi di parole? Essi saranno: “Qualcosa che si accomoderà”.

E in tal modo siamo giunti al cuore del problema, poiché dobbiamo riconoscere che in genere le parole sono correlate, non soltanto a qualche oggetto o idea che hanno la funzione di rappresentare, bensì a un’azione concreta che i parlanti compiono: in altri termini, a qualcosa che un essere umano “fa”. E’ tuttavia opportuno notare che la concezione del linguaggio pensato esclusivamente quale sistema di rappresentazione non è falsa: essa è, invece, semplicemente inadeguata. Si riduce infatti a fornirci un quadro piuttosto limitato di come il nostro linguaggio funziona in certe condizioni speciali, dimenticando però di specificare che il linguaggio umano è una struttura assai complessa che non può essere ridotta al compito di “rappresentare”, pena un grave fraintendimento della sua portata.

Se immaginiamo una comunità primitiva che possieda soltanto un tipo di linguaggio elementare, possiamo a ragione chiederci come sia possibile che i giovani membri della comunità stessa giungano ad acquisirlo: “I bambini vengono educati a svolgere ‘questa’ attività, a usare, nello svolgerle, ‘queste’ parole, e a reagire in ‘questo’ modo alle parole altrui”. Pertanto, indipendentemente dal livello di complessità del linguaggio, lo acquisiamo non in un modo asettico, ma nel contesto della nostra attività di esseri umani. Ogni parola acquista il proprio significato in base all’uso che ne facciamo durante la vita quotidiana, così che parlare del linguaggio come se fosse soltanto un sistema di rappresentazione costituisce pura finzione, la quale può in qualche modo essere utile solo in un contesto estremamente astratto e teorico.

Del resto, che il filosofo viennese si rendesse ben conto del fatto che il linguaggio umano è una struttura composta da una grande varietà di stratificazioni storiche è evidenziato in modo assai chiaro dalla seguente notazione: “Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi”.

Pertanto, i lavori del secondo periodo wittgensteiniano possono essere considerati come un tentativo di conoscere nel miglior modo possibile una tale città, andando in giro e guardando le strade e gli edifici ogni volta da una diversa prospettiva, per tentare di comprendere come ogni nuova aggiunta si armonizzi con quanto era già lì da tempi precedenti. Ma che cosa è il “significato” se ci incamminiamo lungo una tale linea di pensiero? E’ piuttosto chiaro che esso, se assumiamo la correttezza di quanto ho detto finora, non è qualche tipo di entità separata dalle parole del nostro linguaggio, o qualche entità esistente soltanto nella mente di chi parla, bensì qualcosa di talmente legato alle circostanze attinenti all’uso delle parole, che il tentare di scindere significato ed uso potrebbe rivelarsi, nella maggior parte dei casi, un compito assai difficile. Si chiede infatti il nostro autore: “Ma l’eguale senso delle proposizioni non consiste nel loro eguale impiego?”.

Il problema è che, per quanto seri siano i nostri tentativi, sarà molto difficile trovare il significato da qualche altra parte. Il fatto, già notato, che il linguaggio umano è una struttura assai differenziata con un alto numero di diverse componenti, ha delle implicazioni piuttosto importanti. In base a che cosa, ad esempio, distinguiamo tra un ordine e un semplice rapporto, o tra un’affermazione e una domanda? Se cerchiamo qualcosa di “nascosto” nelle parole, cioè qualche misteriosa entità chiamata “significato”, possiamo trovarci ben presto in difficoltà. Se, invece, al fine di chiarire le differenze anzidette cominciamo a indagare sul complesso di circostanze a carattere pratico e sociale dal quale la pronuncia delle parole prende spunto, allora è probabile che avremo un quadro molto più chiaro della situazione.

Questo genere di considerazioni risulta essenziale per la stessa comprensione di come il linguaggio umano funziona. Se lo concepiamo soltanto come un sistema di comunicazione e rappresentazione per mezzo del quale siamo autorizzati a pronunciare asserzioni su determinati argomenti o a chiedere qualcosa ai nostri simili, tendiamo a conferire alle idee e ai pensieri trasmessi dal linguaggio stesso qualche tipo di esistenza indipendente. In altre parole, in quel modo ipostatizziamo il concetto di significato, concependolo alla stregua di un’entità esistente in qualche mondo separato dal nostro. Ed è ovvio che, mantenendoci su un tale sentiero, siamo soggetti a molte cattive tentazioni. Per esempio, tendiamo a concepire le domande come se in realtà fossero affermazioni non espresse in modo appropriato, dimenticando così che il domandare gioca un ruolo originale e molto importante nel contesto linguistico generale; tale ruolo è, naturalmente, diverso da quello assunto dalle affermazioni nel medesimo contesto. Siamo pertanto condotti, forse a livello inconscio, a sostenere qualche forma di “riduzionismo”, costringendo la complessità del nostro linguaggio entro gli stretti confini di una concezione che prevede per esso una singola forma e un’unica funzione. E’ altresì superfluo rammentare che una tale tendenza ci impedisce di comprendere appieno il “fenomeno linguaggio”.

Veniamo ora alla nozione di “gioco linguistico”. Wittgenstein insiste, attraverso l’intero assetto delle “Ricerche filosofiche”, sulla necessità di non ridurre la grande varietà dei giochi linguistici a forme meno numerose e più semplici. Nel “Tractatus” troviamo un audace tentativo volto a ridurre il linguaggio umano, con tutte le sue contraddizioni interne, a un modello pre-fissato di rigore e di precisione, il quale può essere giustificato soltanto nell’ambito delle scienze matematiche e naturali (e della logica). Tuttavia la scienza è stata costruita per fini molto limitati e precisi, mentre il linguaggio ordinario è qualcosa che attiene al livello più generale della realtà, quello della vita quotidiana: è importante quindi non illudere noi stessi con riduzioni di quel tipo. Ponendo il concetto di gioco linguistico al centro dell’attenzione, Wittgenstein enfatizza ancor più il ruolo del termine “uso” nel proprio pensiero. Anche l’importanza del termine “azione” viene ingigantita in tale contesto: noi facciamo qualcosa con le parole, cioè giochiamo ogni tipo di gioco linguistico.

Tenendo dunque conto della nozione di “gioco linguistico”, ci rendiamo conto che l’apprendimento di differenti giochi comporta comprendere che una stessa parola può essere usata in modi assai diversi a seconda del contesto in cui si trova inserita. Per esempio, il medesimo termine assumerà connotazioni differenti se viene usato in un discorso di carattere politico piuttosto che in uno a sfondo economico, e non è invero difficile capire che una simile impostazione è più vicina alla nostra esperienza quotidiana di quanto non lo sia quella esposta nel “Tractatus”.

E’ inoltre importante sottolineare che i giochi linguistici sono essi stessi espressioni dell’attività umana: in altre parole, sono qualcosa che gli uomini mettono in atto per fini pratici. E in tal modo torno alla precedente affermazione secondo cui comprendere una parola significa pure comprendere l’intero meccanismo (vale a dire, in questo contesto, il gioco linguistico) in cui essa risulta inserita. In altri termini, comprendiamo realmente una parola nel capire il gioco di cui fa parte. Inoltre, essendo i giochi linguistici, come ho detto, un genere di attività umana, comprenderli pienamente significa capire perché essi sono giocati e quale tipo di attività umana costituiscono con precisione.

Ma già ho notato che la maggior parte delle parole del linguaggio ricorrono indifferentemente in molti giochi linguistici. Su questa base, possiamo affermare di aver compreso il “significato” di una parola quando conosciamo come essa viene usata in un gioco linguistico? Ovviamente no, dal momento che il significato di un termine è dato dall’intero insieme degli usi che esso acquista in tutti i giochi linguistici in cui compare. Sappiamo pure che il numero dei giochi linguistici è probabilmente infinito, e così può accadere che, viste le loro chiare limitazioni, gli uomini siano in effetti incapaci di comprendere appieno il significato di una parola, poiché essa ricorre in qualche gioco di cui alcuni esseri umani non conoscono l’esistenza. Pertanto, come Quine poi noterà in “Due dogmi dellempirismo”, il vecchio termine filosofico “significato” perde parte della sua importanza.

Il fatto che il linguaggio sia un’attività umana implica che esso è portatore di valori: questo aspetto rientra a pieno titolo nell’orizzonte di significazione “pratica” dell’attività linguistica. Tale è il senso più profondo del nostro constatare che il vero significato di una parola può essere compreso solo nella misura in cui si comprendano i fini dell’attività umana di cui la parola stessa è parte. E ciò significa porre in dubbio la concezione secondo cui le parole sono semplicemente “segni” o “etichette” di qualcos’altro.

Se concepiamo il significato come un tipo di processo mentale indipendente delle parole, siamo portati a supporre che le parole stesse abbiano unicamente una funzione ausiliaria: il loro ruolo sarebbe, in altri termini, quello di fornire uno sbocco ai nostri processi mentali i quali, a loro volta, costituirebbero le vere entità di cui tener conto. Ma, in quel caso, le parole risulterebbero spogliate di qualsiasi valore, in quanto solo ai processi mentali andrebbe l’onere di convogliare il senso.
Dal momento che esse stanno semplicemente “per” qualcos’altro, è chiaro che vanno maneggiate come entità ausiliarie prive di consistenza propia. E, se vogliamo evitare queste spiacevoli conseguenze, non dobbiamo separare il significato dall’uso, poiché essi non sono due entità separate che co-esistono in mondi distinti. Piuttosto, il significato delle parole “coincide con” il loro uso, e la dimensione sociale dell’approvazione conferisce senso e validità a entrambe le nozioni. Il superamento della concezione rappresentativa del linguaggio appare dunque, in base alle premesse da cui sono partito, giustificato e plausibile.

I giochi linguistici nascono quindi in un ambiente determinato che è nello stesso tempo umano, storico e sociale, del quale i bisogni concreti degli individui rappresentano l’asse portante. Più che a eliminare la metafisica, dobbiamo allora badare a combattere i “crampi mentali” che sorgono quando si trasferiscono arbitrariamente le regole di un particolare gioco linguistico in un diverso gioco linguistico (trasferimento che è sempre fonte di innumerevoli confusioni). La filosofia è molto importante proprio perché è l’unico strumento che ci consente di lottare contro ciò che Wittgenstein chiama lo “stregamento dell’intelletto”, contro le trappole che il nostro stesso linguaggio ci tende e di cui gli esseri umani non sono quasi mai consapevoli.

Si tratta indubbiamente di un mutamento di prospettiva assai significativo. Eppure, non è difficile capire che la stella polare del pensiero wittgensteiniano in entrambe le sue fasi resta pur sempre la stessa: l’analisi del linguaggio. Certo si passa dalla considerazione pressoché esclusiva del linguaggio scientifico al trattamento del linguaggio ordinario. Ma, al fondo, pur sempre di analisi linguistica si tratta. E’ proprio questo il filo rosso che unisce da un lato il primo al secondo Wittgenstein, e il neopositivismo logico alla filosofia analitica del linguaggio ordinario dall’altro.


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