Alfonso Cardamone, Dell’entropia ancora. Versi, prefazione di Marcello Carlino, Roma, Cultura e dintorni Editore, 2015
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di Giuseppe Panella
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Alfonso Cardamone ritorna alla poesia dopo Diario del mare (Cosenza, Pellegrini, 2011) con una nuova plaquette di versi scabri e accuratamente torniti come sassi lavorati da tormentose maree estive. L’entropia appare come allegoria di una condizione poetica (e non solo esistenziale) che lega la vita quotidiana di ognuno allo sforzo di ricavarne una plausibile (anche se impossibile) spiegazione che non sia banale o cursoria, accidentale o elusiva.
Scrive Marcello Carlino nella sua Prefazione, lucida e perentoria nella sua vocazione affabulatrice:
«L’entropia necessariamente avviene che ci venga incontro in questa necessaria avventura. Entropia come “dissolutezza libertina” del trascorrere tra passato e futuro; entropia come iscrizione in bilancio di un disordine propulsivo; entropia come risultanza di una valicabilità dei confini tra ciò che è ragione e ciò che non lo è, tra scienza e mito (il caso di Galileo, del cannocchiale e della luna) e di una polivalenza funzionalmente versata di committenti, di commissioni e di ruoli (così per il labirinto rivisto attraverso Borges); entropia come tragitto indirizzato al cosmo e che nel frattempo rasenta il caos come collasso e come morte; entropia come riconoscimento di spazi-tempi di sfinimento, di erosione, di “ragnateli” che raggrinziscono e come contenitore ossimorico di “deformate forme”; entropia come alea da correre e come fantasmagoria di metamorfosi e come viaggio per antonomasia; entropia come ingannevole vita da esperire e da esprimere sempre e comunque. In conclusione si può finire di narrarne così, io credo»1.
Carlino ha ragione: l’entropia è la vita e la vita collude, corrisponde, coincide con la poesia come esercizio esistenziale di amore per essa. Per Cardamone, l’entropia non è un dato negativo ma una situazione-base, una condizione di partenza per continuare a scrivere e pensare le forme per lui naturali della lirica che predilige e che fuoriescono dal recinto “naturale” della tradizione (ormai asfittica) della linea italiana. I brevi testi che compongono questo libretto sono schegge di vita, barlumi di sogno, aspre sporgenze di un iceberg poetico che mantiene la sua condizione di continente semi-sommerso. L’importante è, per il poeta di Frosinone, il continuare a pensare attraverso la scrittura, a scrivere componendo appunti e note brevi nell’orditura ma pesanti nella loro forza espressiva. Il taglio è quello dell’aforisma, della “saggezza breve”:
itaca è l’approdo itaca è l’approdo / il mare l’avventura / ulisse tornò all’alba / a sciogliere le gomene»2.
Il viaggio della poesia ricomincia ogni giorno e ogni giorno si ricompone nella sua im-possibile verità – viaggiare consiste nel cominciare sempre di nuovo, nel ricostruire un reticolo di possibilità, di relazioni, di sogni che la vita permette di ricordare e di ricostituire sempre e comunque.
Anche la luna, tradizionalmente l’astro più caro ai poeti, ha perso il suo senso profondo di guida nello spazio e vaga entropicamente nel cielo della modernità come tutti gli altri satelliti illuminati dal Sole:
«le due culture quand’ebbe finalmente l’occhio / posato sulla superficie nove / volte più vicina della luna / stupì forse Galileo che la lente / del mito le parole gli parlasse / antiche se le macchie lunari occhi / gli apparvero cerulei d’una coda / di pavone a quell’occhio simili / di donna più blu dello smalto / tramandato dal mitografo Plutarco»3.
Sia la scienza che la letteratura rimpiangono l’attesa della luna come luogo misterioso e incognito – la natura dell’astro “ingannevole”, “macchina celibe” (così definita a p. 17) che non rimanda ad altro che a se stessa, la dimensione del mito non viene disvelata né cancellata per sempre dal gesto rivelatore di Galileo che giunge a coglierne le manchevolezze negate né le bellezze assorte e silenziose e tuttavia il suo permanere nello spazio non ha più il carattere assoluto che fino ad allora aveva mantenuto. Della luna né l’una o l’altra delle “due culture” che Charles P. Snow voleva conciliare nel 1959 in una celebre conferenza possono più avere il controllo e dare la definizione più esatta – il giudizio umano si perde e la forza del mito riconquista il suo spazio “umano, troppo umano”. L’entropia, dunque, dimensione allegorica del permanere della vita nonostante la sua splendida assurdità e la sua disperata incapacità a giustificare se stessa, trionfa e rigenera le immobili e stagnanti profondità dell’animo umano e la sua soggettività inceppata:
«entropia ancora sentire il mare che batte e forma / gorghi nelle vene echi del primo / albeggiare della vita rabbrividire / all’invasione di salmastro / nell’inarrestabile sfinimento / che diviene»4.
Più che la (cripto) citazione campaniana del “rumore del mare” qui è evidente il ricordo del primo formarsi della vita all’alba dell’umanità, la nostalgia per quell’”albeggiare” che mostrava il mondo libero e non sottolineato dalla presenza di sovrastrutture che lo schiacciavano e condizionavano, l’amore per il non-conformismo del tutto che ripiega e risolve al suo interno le contraddizioni dell’esistere attuale. Il caos come possibilità ulteriore e finale della vita, il cosmo come ipotesi ancora in-sensata e tuttavia vigorosamente vibrante di passione: nell’entropia sussurata, quasi canticchiata di Cardamone la ricerca della verità si fa discorso e impegno a cercare ancora di conciliare senso e assurdità nel tutto nell’arco ritmato e plastico dell’arcobaleno della poesia.
NOTE
1 A. CARDAMONE, Dell’entropia ancora. Versi, prefazione di M. Carlino, Roma, Cultura e dintorni Edizioni, 2015, p. 7.
2 A. CARDAMONE, Dell’entropia ancora. Versi cit. , p. 11.
3 A. CARDAMONE, Dell’entropia ancora. Versi cit. , p. 19.
4 A. CARDAMONE, Dell’entropia ancora. Versi cit. , p. 29.
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