Evaristo Seghetta Andreoli, Morfologia del dolore, con una nota di Carlo Fini, Novara, Interlinea, 2015
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di Giuseppe Panella
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Scrive Carlo Fini nella sua bella nota critica che introduce al volume di Evaristo Seghetta Andreoli che la natura poetica della scrittura di questa nuova silloge del poeta aretino è autenticamente articolata su un’esigenza di semplicità, di canto modulato senza artifici retorici ma riconnessi e ricondotti ad unità a partire da un momento di espansività sentimentale che si traduce in parola e poi in verso:
«Appare opportuno mettere in evidenza che l’autore si propone immediatamente come poeta di natura, anche se nella filigrana dei suoi versi è agevole rintracciare una cultura vasta e intrinsecamente fondata sui classici latini e greci, pur confrontandosi con la poesia contemporanea italiana e contemporanea. Siamo di fronte a una intonazione melodica che assai poco risente del linguaggio lirico corrente. I versi sono, di norma, brevi, sillabati, densi di espressività. Quella che è stata definita la “semplicità” di Evaristo è un modo autentico, quindi originale, di canto. Nella raccolta si avverte un continuo elevarsi del tono e dell’impronta: all’approfondimento interiore fa riscontro un linguaggio asciutto e chiaro, quasi che il poeta abbia trovato una via maestra per toccare il mondo, i sentimenti e le cose con originale e inconsueta misura»1.
La duplice natura dell’impasto di poeticità sorgiva e di lezione dei classici (soprattutto quelli latini dell’età augustea) si impone, quindi, come ricerca di un linguaggio che non stravolga il dettato tradizionale lirico ma lo accresca di emozioni altrimenti non esprimibili perché intimamente legate al percorso personale dell’autore. Lo dichiara con nettezza e rigore lo stesso poeta in una delle liriche più espressivamente compatte della raccolta:
«VIII. Io sono le mie parole, / sono la traduzione puntuale / del dolore ancestrale, / epifania affissa / alla porta dell’esistenza / e l’inchiostro a delinearne / lo spazio, fra titolo / e prezzo. // La risposta cartesiana / al quesito originale / è solo il dolore, / frutto dell’esposizione / a prove, prove, prove… // Io sono in questa cantilena / che permette al mio udito / di passare il messaggio al cervello, / di rinchiudere nell’anello / del prima e del dopo / il ronzio dell’eternità»2
La soggettività esplode in questa soluzione al dilemma sulla natura profonda e non udibile del dolore, la risposta alla domanda primordiale su che cosa causi e soprattutto a che cosa serva il dolore come forma unificante dell’esistenza di ognuno, come momento che accomuna tutti nella drammatica ricerca e volontà di evitarlo. Il dolore esiste come sostanza dell’esistere e non può essere evitato senza annullare la sostanza stessa del sé:
«IV. E’ freddo il dolore, / è stridore di denti, / trionfo del pianto. / E’ figlio della notte / e, nella sua morsa / nera trattiene / la carne, frantuma / le ossa. // Veste di bianco, / s’ammanta di nero, / non ha tempo. // E’ trama sottile / che lo spirito / e gli occhi / imprigiona // e non perdona»3.
Nella poesia di Evaristo Seghetta Andreoli – come si è potuto vedere – il dolore non è un’entità metafisica o un’astratta minaccia che cala dall’alto di una punizione soprannaturale (non è la “ricompensa di un peccato” commesso nel tempo passato né la sanzione di una colpa). Ha una dimensione concreta, un colore, un tempo situato tra lo zero e l’infinito, una sua concreta germinazione e uno sbocco (forse temporaneo) nella volontà dichiarata di non farsene schiavizzare o trasformare in una sorta di eternità dolente. Chi soffre tende a estremizzare la propria situazione e a trasformarla in una condizione universale; la poesia di Seghetta Andreoli vorrebbe farsene carico in una dimensione vitale che non blocchi la speranza di aiutare ciascuno di noi a superarlo, che impedisca di farsene un feticcio da adorare, che lo riconduca alla sua natura di episodio da accettare e da cui non farsi condizionare:
«XVI. Mettiamo in scena l’ennesimo atto / di questa farsa antica, / allestita al passaggio a livello / della vita, per riempire il vuoto / dell’attesa, nelle comparse a turno / del normale e dell’assurdo. // Scritturati dalla Sorte, / recitiamo alla meglio la parte / assegnata, letta e provata / nel teatro della nausea, / temendo l’errore fatale, / il fallimento totale della strana / commedia imbrattata d’amore. // Accettiamo così ruoli esagerati, / ferrovieri e soldati, / ammucchiati i bagagli / in questa stazione isolata. // Prima o poi il treno passerà»4.
La vita, dunque, per Evaristo Seghetta Andreoli, acquista consistenza e densità solo in questa oscillazione, in questo andare e venire tra felicità e dolore; essa si ritrova nella sua verità quando entrambe vengono accettate per quello che sono e che debbono essere – momenti dell’essere che costituiscono la verità dell’esistenza:
«XXVIII. Scrivo per te, / al margine della foto, solo due parole. / Abbandonato al vento / ogni residuo orgoglio / al vento, che un aroma / aspro di rose trascina, / ho gettato ai tuoi piedi / le speranze spezzate, / perché nulla cancella, / nulla restituisce / l’amore trascorso / se non due parole: / felicità e dolore»5.
Quello che continua a tormentare Seghetta Andreoli e che costituisce l’ossatura della sua riflessione poetico-sapienziale resta quell’”inquietudine da imperfezione” 6 che nasce dalla spasmodica volontà di raggiungere gli obiettivi della vita senza poter mai, tuttavia, fare a meno di pensare alla sua irredimibile caducità.
NOTE
1 E. SEGHETTA ANDREOLI, Morfologia del dolore, con una nota di C. Fini (Evaristo Seghetta Andreoli: tra dolore e speranza), Novara, Interlinea, 2015, p. 8.
2 E. SEGHETTA ANDREOLI, Morfologia del dolore cit. , p. 18. Qui il taglio è pasoliniano, con evidente citazione dalle Ceneri di Gramsci, ma senza la rabbia e la condolente impossibilità della prima stagione del poeta di Casarsa.
3 E. SEGHETTA ANDREOLI, Morfologia del dolore cit. , p. 14.
4 E. SEGHETTA ANDREOLI, Morfologia del dolore cit. , p. 26.
5 E. SEGHETTA ANDREOLI, Morfologia del dolore cit. , p. 38.
6 Cfr. E. SEGHETTA ANDREOLI, Inquietudine da imperfezione, presentazione di F. Manescalchi, introduzione di G. Panella, Firenze, Passigli, 2015, un libro cui bisognerà comunque fare riferimento anche in relazione alle poesie di Morfologia del dolore e che ne costtuiscono l’imprescindibile momento di riferrimento.
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