di Rina Brundu. Appartengo a quella generazione che chiamo la Goldrake Generation. Una generazione arrivata a ’68 finito, di fatto e idealmente. Una generazione senza padrini né padroni, ma anche senza padri nobili a cui guardare per costruirsi un orizzonte d’attesa degno. Una generazione ribelle per sua natura con il primo moto di ribellione portato proprio contro lo snobismo delle generazioni precedenti, quelle più intellettualmente impegnate, convinte che bastasse una canzone dei Beatles o dei Rolling Stones per cambiare il mondo.
Se c’è una canzone che potrebbe a buon diritto rappresentare la Goldrake Generation è invece proprio l’Ufo Robot (Albertelli, L. – Tempera, V. – Tavolazzi) che dal 1978 in poi ha contribuito in maniera sostanziale ad ingigantire il mito del robot creato dal maestro Go Nagai. Da Goldrake in poi la televisione italiana è stata letteralmente invasa dalle anime giapponesi (alcune dei veri e propri capolavori animati), con quelle stesse produzioni che diventavano le nostre fiabe dei Grimm e lentamente modellavano la nostra più intima sostanza, dando al nostro sentire più vero un indirizzo preciso. Non verso quella idealizzazione del male e della violenza temuta dalle anime pie che presentarono una interrogazione parlamentare contro la messa in onda di Goldrake (come a dire che già da allora la casta era altrimenti impegnata!), ma sicuramente verso un approccio più rilassato nei confronti delle necessità pregnanti dell’universo reale che ci circonda.
Anche questo un peccato a suo modo. Non per-se quanto piuttosto perché ha trasformato la nostra immaginazione e il nostro spirito già fortemente stimolati in un terreno fertile per la coltivazione dell’intrattenimento mediatico light. E, come ho già detto, di una visione del mondo light. Quando parlo di intrattenimento mediatico light non faccio riferimento alle perle geniali – per lo più prodotte oltreoceano – che hanno illuminato il firmamento televisivo durante l’ultimo quarto di secolo, quanto piuttosto alle nostre produzioni comiche “più ispirate” che hanno lasciato un segno indelebile e nefasto sulla nostra anima adolescenziale privata di ogni valido riferimento culturale.
Col senno di poi non ho problemi a dire che la prima e più importante di queste deleterie trasmissioni televisive è stata quel Drive-In di cui in tanti quest’anno si affannano a celebrare il trentesimo compleanno. Parlo proprio di quel Drive-In che era diventato un mio personalissimo mito, di cui non perdevo una puntata e di cui conoscevo a memoria ogni tic, ogni mania, ogni pallino, ogni fissazione, ogni ossessione, ogni capriccio. Parlo di quel Drive-in che ha plasmato il mio linguaggio in maniera sostanziale, che ha forgiato la mia mente e che oggi come oggi resta ancora un funesto fagotto ideale di cui è difficile liberarsi. Tale è il peso che ti pare di portare addosso che non si riesce neppure a concedergli l’onore delle armi, come un educatore dissoluto che, alla fine della giornata, diventa caproespiatorio per le “altre” colpe, quelle che sono soltanto nostre.
Una cosa che non è stata detta, a mio avviso, nel mare magnum di inchiostro speso per celebrare l’arrivo dei quarantenni in politica è che anche costoro appartengono alla Goldrake Generation, con tutto ciò che ne deriva… nel bene e nel male. Di buono c’è che la probabilità che facciano peggio dei loro padri più intellettualmente impegnati è comunque minima e laddove ha fallito il loro mentore-putativo Ricci, li resta sempre “l’alabarda spaziale” di Goldrake che, di questi tempi, può tornare sempre utile…
Featured image, screenshot da Goldrake.
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