di Rina Brundu. Non so più quante volte ho preso un aereo negli ultimi venti anni. C’era un tempo in cui viaggiavo più in aereo che in auto, ricordo un giorno in cui ne presi tre per motivi di lavoro, muovendo di nazione in nazione. Erano i tempi dell’Irlanda del boom che, tra le altre cose, vide la nascita della flotta con cui la piccola isola Smeralda ha conquistato l’Europa: Ryanair. Erano i tempi in cui negli aeroporti si lavorava, primi laptop alla mano e chiavette Internet permettendo. Erano i tempi in cui in queste particolarissime “aree di frontiera”, come di fatto sono le sale d’attesa degli aeroporti, si facevano gli incontri più strani. Che a volte davano da pensare.
Amavo e amo ancora oggi viaggiare in aereo. Paradossalmente amo soprattutto i due momenti più pericolosi di queste avventure, la partenza e la discesa, il tocco-terra finale. Mi scoccia quando sovente, specialmente quando si atterra in Italia o ci sono italiani a bordo, in tanti applaudono il capitano per essere infine atterrato: ha fatto solo il suo dovere ed è una manovra come un’altra! Bello è invece perdersi a pensare tra le nuvole, ammirare la coltre biancastra, spumosa, che a volte avvolge la superficie terrestre e si perde in mille costruzioni fantastiche come bozzetti di un artista impazzito. Da quell’altezza anche il sole brilla da par suo mai infastidito dalle nuvole. Nelle giornate più chiare mi è capitato di ammirare spettacoli mozzafiato: la lunga catena delle Alpi innevate, la Tour Eiffel, il Tamigi, le “verdissime” spiagge di Sardegna, il blu-cobalto del mare. O altri aerei che si infilavano sopra e sotto la nostra traiettoria e parevano sempre più veloci.
Ma una volta seduta al mio posto, di norma accanto al finestrino, non è raro che mi fermi, che mi sia fermata, a guardare gli altri passeggeri. Fissarli pure in volto, tentare di capire chi fossero. Benché non abbia mai coltivato pensieri preoccupati mentre mi accingevo a partire, mi rendevo conto che per quelle poche ore saremmo stati tutti accomunati dallo stesso destino, che quelle persone estranee avrebbero potuto condividere con me il mio destino ultimo. Mi piaceva dunque l’idea di saperne di più e se avessi potuto avrei chiesto loro perché erano lì, cosa li aveva indotti a viaggiare proprio quel giorno: un’emergenza, una necessità, uno sghiribizzo?
Lo scrivo perché se si guarda a tante passate storie di coloro che hanno perso la vita in un disastro aereo si notano incredibili coincidenze. Mi è sempre rimasto impresso, per esempio, il caso di quella signora che doveva imbarcarsi su un volo Brasile-Francia (onestamente non ricordo se si trattasse dell’ultimo volo del Concorde e se quindi l’aeroporto di partenza non fosse invece negli Stati Uniti) che poi si risolse in uno dei disastri aerei più terribili delle ultime decadi. So per certo però, che per un evento imprevisto la signora perse l’aereo e si salvò. Tornò a casa con il volo successivo, morì in un incidente d’auto durante il viaggio che dall’aeroporto la portava a casa. Significava forse che il suo tempo era comunque arrivato? Che il suo destino avrebbe dovuto essere fin dall’inizio quello di finire i suoi giorni con quegli altri “compagni di viaggio”?
Forse. Non lo so. So solo che per questi e molti altri motivi sento come miei “compagni di viaggio” tutti coloro che hanno perso la vita nel tragico volo della Germanwings, con un pensiero particolare per il gruppo di studenti tedeschi, molto simile alle tante comitive scolastiche che ho incontrato durante i miei viaggi. Anzi, erano proprio queste le comitive che, animate dalla loro passione giovane, spesso iniziavano i lunghi applausi al capitano che era “infine” riuscito ad atterrare. Purtoppo questa volta “l’impresa” non è riuscita mentre domani è comunque un altro volo. Un pensiero.
Featured image, una foto dall’alto durante uno dei miei viaggi (arrive a Pisa).