di Pierluigi Montalbano
Le fonti romane ci parlano di Sulci mentre in lingua semitica, in fenicio, era Sulki. Si trova sul versante orientale dell'omonima isola, e il reimpianto moderno del paese ha determinato lo spoglio sistematico delle strutture antiche. Le fortificazioni chiudevano la città e il tophet, il santuario a cielo aperto che ospitava i bambini nati morti, o in giovanissima età, era, come di consueto per quel genere di luoghi, al di fuori delle mura.
Nell’area del cronicario, in corrispondenza dell’attuale ospedale, furono individuati negli anni Ottanta alcuni ambienti abitativi che si riferiscono all’VIII a.C. É un rinvenimento importante perché in tutta la Sardegna abbiamo solo poche tracce degli insediamenti arcaici: qualche muro e una striscia di fondazione a Cagliari, un battuto a Nora, poco a Tharros. A Sulki non c’è monumentalità, solo due isolati con una serie di vani che presentano pavimenti in terra battuta, muri con zoccolo in pietrame bruto, cementato con malta di fango, e un alzato, oggi scomparso, in mattoni crudi. Parte dei materiali frammentari rinvenuti sono di importazione (euboici di Pitecusa e corinzi), ma altri sono di produzione mediterranea, e mostrano che la città fu frequentata commercialmente particolarmente intorno al 750 a.C. Alcuni materiali levantini sono di ispirazione varia, come la coppa con forma greca, decorata in quello stile tipico dell'età fenicia, con un volatile ripreso chiaramente dal repertorio euboico di Ischia, primo emporio greco in occidente.
Le fortificazioni si trovano nella zona del fortino sabaudo, nell’area destinata all'Acropoli. Gli scavi furono condotti inizialmente da Pesce, poi da Barreca negli anni Settanta e recentemente da Tronchetti, e hanno portato alla luce delle strutture che iniziano dietro il fortino e arrivano a una torre. Bartoloni sostiene che le fondazioni del fortino utilizzano la base della precedente torre punica perché la forma a zig-zag e i blocchi sono tipicamente punici. Le mura corrono fino ad una torre elicoidale addossata a una roccia e poi piegano verso il mare, chiudendo la città. In questo ultimo tratto si trova la necropoli punica. Dietro la chiesa di Sant’Antioco si trova un breve tratto realizzato in blocchi squadrati, in parte bugnati e messi in opera a secco. Barreca ha individuato un camminamento di ronda, ma non lo ha mai pubblicato. Nell’area alta dell’acropoli, vicino al deposito della Soprintendenza, ci sono delle strutture bugnate in calcare chiaro e tufo scuro. Vicino a questa zona troviamo un edificio con otto colonne di età repubblicana, di incerta interpretazione, che racchiude due ambienti.
La datazione delle fortificazioni è fonte di dibattito fra studiosi. Per Barreca, che le individua nella parte alta del Monte de Cresia e nell'Acropoli vicino al fortino sabaudo, sono di età fenicia (come le altre che scavò in giro per la Sardegna), costituite da spesse mura in pietrame bruto a doppio paramento. In seguito ci furono una fase tardo punica, contraddistinta da blocchi squadrati, e una fase romana.
Bartoloni, già dagli anni Ottanta, non accetta questa ipotesi, proponendo che nessuna delle città di età fenicia avesse fortificazioni e che queste, come tutte le altre strutture, si realizzarono solo a partire dall’inizio del V a.C. quando la Sardegna affrontò i cartaginesi che tentavano di sottometterla.
Tronchetti negli anni Novanta ha scavato nelle strutture delle fondazioni trovando materiali romani. Per lo studioso le mura sono state impiantate in età repubblicana con tecnica punica ma ha sondato solo pochi punti. Bisognerebbe riprendere gli scavi perché attualmente i dati sono contradditori. Negli anni Ottanta sono stati trovati i “Leoni di Sulci”, due grandi animali esposti al museo di Sant’Antioco, in posizione accosciata e con la coda rigirata attorno ad una zampa.
Sono inquadrati all’interno di un elemento che regola lo spazio con una base tronco-piramidale, rastremata verso l’alto, sormontata da un listello-toro, con sopra una gola egizia. Nella parte posteriore c’è una superficie piana con un incasso a sezione triangolare, forse per consentire l’inserimento dei leoni in una struttura monumentale. Al momento del rinvenimento i leoni erano reimpiegati ai lati di una nicchia chiusa da un muro rettilineo a due filari. Davanti abbiamo una grande arena ellittica delimitata da blocchi. La struttura è stata riferita a età repubblicana, quindi i leoni, essendo più antichi, furono certamente utilizzati per decorare un'altra struttura, probabilmente di tipo ellenistico con terrazze. Essendo fuori contesto si può fare una datazione solo su base stilistica. I leoni sono di tradizione orientale, siriana o siro-palestinese, che si mescola con influenze assire ed ittite. Questo tipo di leoni in oriente erano utilizzati nelle porte dei templi. Per alcuni studiosi ci sono influssi greci mediati dall’elemento etrusco. La cronologia porta al VI a.C. e la loro funzione era legata alla destinazione d’uso dell’area: militare per Moscati e Barreca, perché vicina alle fortificazioni e perché forse erano sistemati ai lati della porta di ingresso; religiosa per Bartoloni e Tronchetti perché dopo la collocazione militare l’area fu risistemata con una struttura di età repubblicana con un vano diviso in due, una serie di colonne e pavimento in cocciopesto con tessere bianche, quindi un tempio con i due leoni ai lati dell’ingresso. Bernardini, di recente, ha avanzato un’altra ipotesi: c’era la destinazione sacra dall’inizio e le statue erano all’interno di una struttura punica come braccioli di un trono monumentale.
Alcuni vasi funerari arcaici, quasi intatti, sono visibili in collezioni private di Sant’Antioco ma non conosciamo l’ubicazione del cimitero di età fenicia, a eccezione di una sepoltura scavata presso Piazza Italia, a 100 m dal mare, e datata al VII a.C. La necropoli punica è in parte ricoperta dall’attuale urbanizzazione. Si trova a valle delle fortificazioni, all’interno del fossato. Sono sepolture in grandi camere e, come quelle di Tuvixeddu a Cagliari, sono state riutilizzate fino al secolo scorso come abitazioni. Ci sono due varianti: la più antica, datata agli inizi del V a.C., è costituita da tombe con dromos larghi e monumentali con scale ben definite, e camera rettangolare. Le più recenti, del IV a.C., sono ancora più grandi, con dromos stretto e camera separata da un tramezzo, risparmiato nella roccia, che delimita due vani ben distinti.
All’interno la deposizione funeraria era spesso praticata all’interno di bare lignee in cui si sono ben conservati i resti delle ceramiche di corredo e qualche legno. La copertura era a lastre e sopra c’erano i segnacoli in pietra. In epoca romana le tombe puniche sono state riutilizzate come catacombe, a volte unendo le varie camere. Sotto la chiesa ci sono molte di queste tombe e l’area è visitabile: attualmente c'è un ristorante, dietro la chiesa della piazza, che conserva alcune tombe nella cantina. Le bare erano spesso poggiate su due blocchi in pietra, sollevate dal suolo. C’è anche la presenza di linee di pitture sulle pareti, come nelle tombe africane degli antichi libici, gli indigeni trovati dai levantini durante le navigazioni commerciali mediterranee. I cartaginesi non si sono mischiati con loro e con i libici. Pur subendo l’influenza della tradizione punica, hanno mantenuto alcuni tratti caratteristici della loro cultura che poi hanno portato nelle loro città. Quando i cartaginesi hanno conquistato la Sicilia e la Sardegna, attuarono una politica capillare di sfruttamento delle risorse agrarie e minerarie, attuando il ripopolamento nelle colonie perché i nuclei di sardi erano minimi. A questo scopo inviarono intere comunità di africani in Sardegna, costituite solo in minima parte da cartaginesi: alcuni suffeti (prefetti) e qualche amministratore, mentre la maggior parte era composta da indigeni punicizzati. In sostanza la cultura si è miscelata fra libici, punici e sardi, e ciò spiega i segni di pittura in ocra rossa sulle pareti delle tombe, così come si notano a Cagliari, Tharros, Olbia e Monte Luna, mentre a Cartagine non ci sono tombe dipinte.
A Sant’Antioco negli anni Novanta sono stati trovati due importanti altorilievi posizionati sulla testata dei tramezzi, con lo scopo di dividere in due la tomba. Uno di essi è stato restaurato malamente, nel senso che i caratteri originari non sono stati rispettati, ed è in corso un recupero per riportarlo all’antico. Si tratta di un personaggio maschile con barba, con vesti egizie e in posizione incedente. Un braccio al petto e l’altro lungo i fianchi, con tracce di nero e arancio. La mano poggiata al petto porta dei bracciali. La datazione è del V a.C. L’altro, quello scavato da Bernardini, è colorato vivacemente, sempre di nero e arancio, e per evitare il degrado, è stato richiuso nella tomba.
Il tophet si trova all’esterno delle mura, vicino alla torre con blocchi bugnati, ed è datato all’VIII a.C. Fu scavato negli anni Cinquanta da Pesce e mai pubblicato, ma sono state pubblicate le 1500 stele. Impiantato in terreno vergine, sul cosiddetto roccione sacro, presenta urne inserite nelle spaccature della roccia trachitica, frequentemente in pentole coperte con piatti. Uno dei più importanti materiali restituiti è un’olla pitecusana (euboica) datata al 730 a.C. Questo vaso non dovrebbe trovarsi in un tophet, forse si tratta di un ricco commerciante levantino che per deporre suo figlio ha comprato un vaso di grande pregio e l’ha deposto nel tophet, oppure si tratta di un greco euboico che praticava il culto fenicio. Non si è certi se all'interno vi sia un bambino sulcitano figlio di orientali o pitecusano o euboico, ma comunque è uno straniero. C’è anche un’anfora, a corpo ovoidale, in stile fenicio del VIII a.C. che ci rimanda ad ambito cartaginese perché la decorazione metopale a red slip, è tipica di Cartagine. Le urne ricollocate nel sito sono riproduzioni, per non sottoporre le originali al degrado naturale.
Le stele di Sant’Antioco mostrano cippi semplici, a trono e a edicola che nella fase centrale del V a.C. mostrano una forte influenza egiziana. Alcune raffigurazioni presentano edifici sacri con pilastri, senza colonne, sormontati da una trabeazione e da una modanatura a gola egizia delimitata da listelli. Sopra c’è la decorazione ad urei con disco solare (serpenti sacri simboli solari), tipico fregio del coronamento dei templi egiziani. I personaggi sono vari: femminile con fiore di loto oppure con disco al petto (per alcuni si tratta di un tamburello per riti musicali); divinità aniconiche; sacerdotesse varie; personaggi maschili con barba e con una lancia in mano e dietro il tipico ricciolo che troviamo nella tiara di tipo siriano (quindi un elemento orientale). Moscati sostiene che il personaggio femminile sia una sacerdotessa intenta a suonare un timpano, e quello con la stola sarebbe il sacerdote. La stele ad edicola con questi personaggi è fra le più diffuse nell'iconografia sulcitana e non trova riscontro altrove. Quando i personaggi poggiano i piedi su un podio siamo certi che si tratta di divinità. La maggior parte dei capitelli non sono greci, spesso sono ripresi dall’architettura egizia.
Curiosamente, mentre altrove le stele a edicola scompaiono nel VI a.C., qui a Sulki continuano, pur trasformandosi. Nelle stele troviamo delle edicole con elementi classici greci sia nell'architettura che, gradualmente, nella iconografia delle nicchie. I personaggi hanno veste classica, anche se il significato è lo stesso: si passa da personaggi maschili con stola a personaggi femminili con disco. L'edicola ha capitelli, colonne e timpano con acroteri senza trabeazione (ancora simboli punici). La prima innovazione è il timpano. C'è un personaggio femminile con disco nel petto che mantiene abiti punici. In una colonna c'è un personaggio con stola e veste classica, timpano con acroteri con all'interno una rosetta. Abbiamo anche una stele polimaterica meno pregiata datata al II a.C. con colonne scanalate, capitelli senza trabeazione, timpano, acroteri e personaggio con stola. Si arriva alle ultime rappresentazioni che sono in materiale meno pregiato, ad esempio marmo, dove si vede l'influenza del mondo classico con fattezze tipiche greche.
Mentre a Cartagine nel terzo strato di scavo si passa alla stele piatta che diventa un supporto per la rappresentazione, a Sant’Antioco abbiamo un fenomeno unico, con l’edicola tridimensionale che presenta però elementi classici inseriti in maniera artificiosa nello schema preesistente. Al posto dei pilastri compaiono delle colonne doriche, e il timpano è fiancheggiato da acroteri, ma scompare la trabeazione, fatto che causerebbe il crollo del tempio. Ciò è testimoniato dal fatto che non esistono templi fatti in questo modo. Al centro del timpano c’è la falce lunare che sormonta il disco solare, simbolo sardo-punico. Rimane la figura femminile con disco al petto o personaggi maschili con rosetta. La Dea Tanìt ha sulla spalla una stola, una veste di tipo classico, greco, contravvenendo alla moda precedente. Si giunge, dunque, a una commistione di stili e tradizioni.
Nel II a.C. si arriva a stele in marmo, edicola classica e personaggio con stola. Un’altra tipologia è quella con stele centinata, che ricompare in età tarda, intorno al III a.C., caratterizzate da animali (ovi-caprini) in atteggiamento di movimento. Stranamente questa tipologia ricompare dopo secoli di assenza, forse si tratta di animali sacrificati nei tophet.