di Rina Brundu. Leggevo, alcuni giorni fa, dell’ennesima riforma scolastica italica che il governo Renzi intenderebbe fare. Con sgomento ho appreso che la programmazione informatica non è tra le materie pregnanti prese in considerazione per la futura scuola dell’obbligo; insomma, un poco come se quando eravamo studenti noi, il ministro della scuola di quei giorni lontani si fosse scordato di farci studiare la matematica.
Non sono un’insegnante ma ritengo di poter parlare con cognizione di causa, se non altro perché ho fatto la mia gavetta lavorativa e tecnica in quell’Irlanda del primo boom economico, ovvero in quel magico periodo di inizio millennio in cui le multinazionali informatiche di mezzo mondo, e della Silicon Valley in particolare, trasferivano nell’isola smeralda i loro head-quarters europei, con tutto quel che ne è venuto. Vivo, vivissimo è nella mia memoria il ricordo di quei tempi “eroici” in cui era più facile trovare lavoro che parcheggio nel centro di Dublino (e non solo), e di quando noi giovani laureati di tutta Europa venivamo assunti da questa o quell’azienda per “supportare” i loro clienti ancora digitalmente inesperti nei nostri stessi paesi di provenienza. Ricordo il training, il nostro agitarci intorno ad enormi “motherboard” di computer che oggidì apparirebbero alla stregua di antichi dinosauri, ricordo l’incredibile know-how acquisito che ci sbalzò all’improvviso dai ritmi analogici e lenti che avevamo vissuto fino a pochi anni prima in una dimensione dinamica, completamente diversa e decisamente elettronica.
Dentro questo contesto fortemente tecnicizzato, lo studio dei linguaggi di programmazione era la conditio-sine-qua-non per fare una differenza. Impossibile, tra le tante, dimenticare quell’incredibile scena di “The social network”(2010) – lo straordinario film di David Fincher con immortale sceneggiatura dell’incredibile e mitico Aaron Sorkin, nella quale Mark Zuckerberg assume il primo programmatore della sua futura company Facebook, dopo che questi si è quasi “cannato” con una sorta di maratona programmativa andata avanti per ore e ore. “The job is yours!” o qualcosa del genere, sentenzia infine il futuro guru feisbukico al nuovo assunto, come a dire, è tuo di diritto, te lo sei guadagnato con la tua bravura, con i tuoi skills!
Skills, ovvero abilità tecniche e lavorative che, nel caso dell’informatica, occorre mettere in cantiere sin da piccoli, piccolissimi, già dai tre anni (forse meno), in poi, se si vuole sperare di poter fare una differenza nel mondo che verrà. Da questo punto di vista, fanno impressione quei genitori italiani – sentiti con le mie orecchie – che “minacciano” ragazzetti di dieci-quindici anni, ormai “anziani” in termini di capacità di apprendimento ottimale di date dinamiche logico-matematiche, di ritorsioni-digitali (i.e. non ti compro il computer, ti tolgo il computer se non fai i compiti e altre baggianate simili!), se non ottengono “risultati” soddisfacenti e congruenti con i loro datati parametri formativi ed educazionali.
I linguaggi di programmazione come materia obbligatoria sin dalle elementari, subito! Subito, se vogliamo dare un futuro valido ai nostri figli, se vogliamo dar loro una reale chance di giocarsela ad armi pari con i loro coetanei nel mondo, se vogliamo dare una vera possibilità di emancipazione lavorativa ed intellettuale alle bambine (e a questo proposito, fanculo la festa della donna!), ma finanche per motivi terapeutici. Sì, perché non sono pochi i grandi luminari della medicina che – parlando di prevenzione – consigliano l’attività “sportiva” neuronale per combattere tante malattie degenerative come il terribile Morbo di Alzheimer. Basta, o serve aggiungere altro per perorare al meglio questa causa?
Featured image, locandina.