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Sull’inattesa vittoria di David Cameron

Creato il 10 maggio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
David Cameron

David Cameron

di Michele Marsonet. Che le ultime elezioni fossero destinate a scuotere il quadro politico britannico era, in fondo, atteso. Difficile però prevedere che lo scompiglio fosse così forte. Non bisogna lasciarsi ingannare dall’inattesa vittoria dei Tories. In effetti, il Regno Unito diventa ora una nazione più simile all’Italia che agli Stati Uniti, suo tradizionale punto di riferimento.

I fatti da rimarcare sono molti, e mi concentro solo su quelli che paiono più rilevanti. Innanzitutto entra in crisi il tradizionale – e molto invidiato nell’Europa continentale – bipolarismo perfetto. E’ pur vero che i conservatori hanno vinto conquistando a sorpresa la maggioranza assoluta in parlamento. Tuttavia è parecchio aumentata la frammentazione con risultati a dir poco sorprendenti.

Il primo dato che impressiona è la pressoché completa vittoria conseguita dagli indipendentisti scozzesi nel loro territorio. Non era affatto scontato, visti i risultati del referendum che si tenne nelle Highlands meno di un anno fa. Allora i “cugini” celti respinsero l’ipotesi del distacco dal Regno sconfessando la leadership dello Scottish National Party. Ora Nicola Sturgeon s’è presa una sonora rivincita poiché, in Scozia, non è passato neanche uno spillo. Quasi tutti i collegi sono andati agli indipendentisti, che saranno rappresentati a Londra da un numero di deputati ben più cospicuo del precedente.
Tutto ciò potrebbe alla lunga innescare una reazione a catena, dal momento che esiste pure un partito che si batte per l’indipendenza del Galles. Piccolo, finora, ma anche i gallesi sono celti e l’esempio scozzese potrebbe incoraggiarli a seguire la strada intrapresa a Edimburgo e a Glasgow.

Il secondo dato “strano” è la grande vittoria dei conservatori. Tutti i sondaggi sottolineavano l’impopolarità di David Cameron considerandolo sicuramente in calo. E’ accaduto invece il contrario, anche se francamente è difficile capire perché. Di solito i sondaggisti britannici c’azzeccano, favoriti per l’appunto dai pochissimi partiti realmente importanti e dalla conseguente stabilità. Questa volta, a dispetto del sistema maggioritario, non sono riusciti a cogliere il quadro in anticipo e con sufficiente precisione.

Il rovescio della medaglia è la grave sconfitta dei liberaldemocratici, alleati di Cameron nel precedente governo. Il loro leader Nick Clegg – dimissionario – non è riuscito a dotare il terzo partito nazionale di un’identità precisa e la base è in rivolta. Cameron non ha più bisogno di loro giacché in parlamento sono rimasti davvero pochi. Comunque non abbastanza per condizionare la formazione di un governo stabile. Né possono chiedere qualcosa in cambio, essendosi gli elettori LibDem stancati di fungere da stampella che conta pochissimo nei processi decisionali.

Altro dato sorprendente è la grave sconfitta di Ed Miliband (lui pure dimissionario), che le previsioni davano piuttosto in ascesa. Anche in questo caso bisognerà attendere per capire tutte le ragioni della batosta subita, ma è probabile che una parte dell’elettorato Labour non abbia gradito la svolta a sinistra – per quanto blanda – di Miliband, e il rinnovato peso dei sindacati all’interno del partito. Più certo invece è il ruolo negativo del voto scozzese, giacché i laburisti erano da sempre il partito maggioritario in Scozia e ora sono stati soppiantati dallo SNP.

Una nota merita anche Nigel Farage. Il suo Ukip ha ottenuto un bel risultato sul piano dei voti (è il terzo partito), ma una rappresentanza pressoché nulla in parlamento. Colpa (o merito, dipende dal punto di vista) dei collegi uninominali dove i candidati Ukip non sono mai riusciti a prevalere. Non a caso si parla della necessità di cambiare il sistema elettorale. Tema classico in Italia, e impensabile in Gran Bretagna fino a oggi.

C’è infine il tema della UE, cui ho già accennato, percepito in gran parte dell’Europa come un serio problema, e assai di più nel Regno Unito. Si deve notare, a tale proposito, che Charles de Gaulle non aveva tutti i torti quando si opponeva alla sua entrata nell’Unione. Troppo diverse le storie, e troppo stretti i legami con gli Stati Uniti e le ex colonie anglosassoni come Canada, Australia e Nuova Zelanda. Gli inglesi – e uso tale termine per semplificare – si sentono europei solo fino a un certo punto, giacché altrettanto forti sono i vincoli con la comunità anglosassone. Tali vincoli, com’è noto, hanno trovato un fertile terreno di sviluppo anche sul piano militare e dello spionaggio come dimostra la creazione della rete “Echelon”.

Bisogna però riconoscere che i politici britannici sono stati molto più saggi dei nostri rifiutando di aderire all’Eurozona, anche grazie alle pressioni dell’onnipotente City londinese. I cittadini britannici sono contenti di avere ancora la sterlina (e, onestamente, come dar loro torto?). Mi sembra chiaro che, anche prescindendo dal risultato elettorale, il Regno Unito – ammesso che non si sgretoli a causa delle spinte indipendentiste – è destinato a conservare almeno in parte quei caratteri di unicità che da un lato irritavano Charles de Gaulle e, dall’altro, continuano ad affascinare gli stranieri.

L’esito del voto lascia intravedere la continuazione del rapporto speciale con gli USA, un rafforzamento dei settori più intransigenti della Nato e, soprattutto, la prosecuzione del dibattito su pregi e svantaggi della permanenza inglese nell’Unione Europea. La quasi novantenne regina non dovrà intervenire più di tanto, anche se molti lo prevedevano. Ma è probabile che toccherà ancora a lei l’arduo compito di esercitare la “moral suasion” per impedire che gli scozzesi, galvanizzati dal loro successo, decidano di andarsene recuperando l’indipendenza perduta nel lontano 1707.


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