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Sull'inevitabilità della storia: "Sul Globo d'Argento" di Andrzej Zulawski

Creato il 13 ottobre 2013 da Samuelesestieri

Ci sono dei film.
Ci sono dei film, rari, giganteschi, inafferrabili, che sarebbe impossibile (e sbagliato) riuscire a condensare, a riassumere, a rinchiudere entro determinati schemi.
Ci sono dei film, rari, giganteschi, inafferrabili, per cui ogni parola è ingiusta, perché sfuggono a qualsiasi controllo, perché sono più belli di qualsiasi cosa che si potrebbe esprimere, dire o affermare.
Ci sono dei film, rari, giganteschi, inafferrabili, che non richiedono altro se non lasciarsi vivere, perché conservano una potenza intatta e disarmante, una rabbia devastante, un'idea di cinema che è già pronta a scavalcare tutto il resto.

Idea di cinema che si traduce in un gesto filmico reiterato, in una visuale distorta (e deforme grandangolare ingigantita debordante eccessiva perfino fastidiosa invadente insinuosa sensuale innamorata definitiva finale eppure così dolcemente aurorale).
Aprire gli occhi, guardare, tornare a sorprendersi per tutto, proprio tutto e aver paura perché non sai dove si andrà a finire, a cosa ti porterà quel film perché ormai non è più solo un film. Lasciarsi trasportare, perdersi forse, e amare fino in fondo quella perdita, quella mancanza, quel disagio che è, è stato, è sarà l'Opera vera, lontana, inarravabile.

Quando ti ritrovi a vedere "Sul Globo D'Argento" hai la percezione di un tempo che scorre in maniera diversa, di un modo di intendere il cinema, l'immagine, la Storia, l'umanità, che è fragile, umanissimo, devastante. Ma il film è tutto lì, nella sua stessa incompiutezza, in quelle parole pronunciate da Zulawski stesso mentre gira per le strade polacche: la parte "aggiunta" rappresenta per me una riflessione gigantesca sul cinema in grado di sconfiggere tutto il resto, sul cinema che va salvaguardato, protetto da qualsiasi fattore esterno, da qualsiasi regime o repressione.

Ciò che sorprende è il continuo disorientamente operato da Zulawski, il suo imperterrito abissale far sentire fuori posto lo spettatore, che diviene nomade in un altro regno della visione, più sconosciuto, più disagiato, più doloroso. Come un Tarkovskij virato in blu, pregno di rabbia e risentimento, che ha bisogno di urlare, perché crede nel corpo prima di tutto come movimento instabile, come possessione che domina la carne, come continuo, inafferrabile momento della verità. E la parola, che ha un valore fondamentale, necessario nel film, è la carnificazione del sentimento, è protesi stessa del corpo.
Non è cinema che si racconta perché "Sul Globo D'Argento" è un film che si può solo sentire sulla propria pelle, che richiede allo spettatore di perdersi in un regno che non può che essere dominato dal caos. Che poi sia l'intera storia umana il manifestarsi animalesco, bestiale di quel caos è una teoria straordinaria: la nuova civiltà nata da un sogno generoso è condannata a essere un doppione della storia della Terra. Questo è il film sull'inevitabilità della catastrofe, sul fatto che tutto avviene - e avverrà - nello stesso modo, con le stesse facce, all'interno dello stesso mito aurorale, della stessa grande dimora.
Si arriva addirittura a esistere e a rivivere all'infinito solo in virtù di una grande storia d'amore e sofferenza. Ecco dunque l'immagine Cristica di un regno del dolore, dove l'avvenire è il nostro stesso passato.
Allora eccoci chiamati a vedere-non vedere e a completare: radiografia dell'occhio, indagine del cuore. E ritrovarsi testimoni di ogni domanda, di ogni lamento, di urla e dolori, mentre si assiste (disorientati) a un video registrato prima del tempo, a una visione per cui non si è mai troppo pronti.
E' meraviglioso pensare che esista tanto cinema così grande da scoprire.

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