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Sulla beatificazione di Karol Wojtyła

Creato il 02 maggio 2011 da Pim

Images Non insinuo che sia stata semplicemente una mossa promozionale, viste le quotazioni in netto ribasso. Ho in sospetto, però, che la Chiesa di Roma abbia utilizzato la beatificazione di papa Wojtyła come occasione per rinsaldare il legame con la massa dei fedeli. Un legame che, a causa del processo di secolarizzazione in atto nella nostra società ma soprattutto per la sostanziale perdita di credibilità delle istituzioni ecclesiastiche, si è allentato da tempo. Non mi riferisco soltanto ai recenti scandali a sfondo sessuale, i quali sono appena un epifenomeno. Le critiche al relativismo culturale, la posizione inflessibile sul finis vitae, la condanna della contraccezione, persino i rimproveri al film di Moretti: mi domando a chi Santa Romana Chiesa stia parlando e, soprattutto, se c'è qualcuno che stia ancora ad ascoltare i suoi precetti, sempre più incomprensibili ed estranei alle sensibilità contemporanee. La gigantesca cerimonia allestita in Piazza San Pietro voleva dunque rappresentare una vetrina mediatica per ripulirne l'immagine appannata e rilanciarla agli occhi del mondo.

Si potrebbe discutere sul concetto di santità così come inteso dalla Chiesa cattolica: se le virtù eroiche non appartengano piuttosto a chi si sforza di acquistare quotidianamente la dignità di persona, i miracoli non si manifestino nell’aprirsi faticoso ai bisogni degli altri. Si potrebbe discutere assai anche sulla figura complessa e contraddittoria di Karol Wojtyła, ridotta a un’immaginetta dalla pseudoreligiosità popolare. Tuttavia, indipendentemente dal giudizio storico sul suo pontificato o dagli aspetti più esteriori che l’hanno contrassegnato, c’è un gesto che ne definisce la statura etica. Mi riferisco alla richiesta di perdono che, come massima autorità della Chiesa, proferì nei riguardi delle altre confessioni circa i misfatti compiuti dai cattolici nello scorso millennio. Era il 2000. Nessuna grande religione aveva in precedenza osato riconoscere che la propria storia era intessuta di errori, il male inflitto nel nome del proprio credo aveva nulla di provvidenziale ma era iniquo. In qualità di Vicario di Cristo sulla terra, Wojtyła si faceva carico dei peccati commessi dalla Chiesa davanti al suo Dio e agli uomini. Senza minimizzare o giustificare. Eppure il valore di questo atto inaudito, unilaterale, che non esigeva reciprocità, fu recepito solo in parte dalla massa – più propensa a strillare san-to-su-bi-to senza neppure sapere perché. I media italiani, generalmente solerti a enfatizzare acriticamente le posizioni della Santa Sede, gli dedicarono uno spazio ridicolo. E mentre gli Ebrei lo considerarono un evento fondamentale, la gerarchia vaticana lo accolse freddamente se non addirittura con ostilità.

Quello di Karol Wojtyła resta un esempio luminoso di cosa significa un atto di riparazione: assumersi la responsabilità di ciò che si è fatto o si fa, deponendo l’arroganza, spogliandosi della tracotanza, riconoscendo i propri limiti, le insicurezze, le colpe. La cultura della responsabilità prescinde totalmente dalle personali convinzioni ideologiche e religiose, avendo invece a che fare con l’etica, contiene implicazioni riguardanti il nostro modo di essere nel mondo. Soltanto attraverso la trasformazione interiore che deriva dalla consapevolezza degli errori compiuti possiamo cominciare a ridurre la sofferenza che provochiamo. Ma per arrivare a ciò occorre intraprendere un viaggio interiore lungo e disagevole, che mette a dura prova le forze, senza sicurezza di un approdo, con il rischio costante di cedere alla disperazione. Per questo motivo, le scuse che Karol Wojtyła offrì al mondo ne definiscono la grandezza d’animo, a prescindere da come la si pensi in fatto di religione e del suo processo di beatificazione.


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