C’è un concetto che ultimamente spopola; molte persone infatti si lamentano del fatto che il nostro non è un paese meritocratico; ovvero, si lamentano del fatto che persone (secondo loro) con del merito conseguono risultati (perlopiù in termini di retribuzione) deludenti, mentre persone (secondo loro) non meritevoli raggiungono risultati (perlopiù in termini di retribuzione) fin troppo generosi.
Quello che tenterò di mostrare è che il concetto di merito è assai infido; tutti in teoria sanno cosa è e dove si trova; ma stabilire dei parametri che, concretamente, aiutino ad individuarlo, è impresa assai più ardua.
La meritocrazia sta rapidamente diventando uno (se non IL) cavallo di battaglia dei movimenti di ispirazione liberale; si leggono slogan come “liberare le energie, premiare il merito”, ed in effetti tutti applaudono in quanto, vanitosi ed egocentrici, credono essi stessi di esser meritevoli; e che quindi, in una nuova situazione in cui questo venga premiato, ne risulteranno avvantaggiati. La mia idea (che poi mia non è, è una semplice inferenza da certi principi dell’ordine liberale) è che la meritocrazia ha più a che fare con una società chiusa, orientata secondo un fine univocamente indicato, che con una società libera; è che, se va tanto di moda, è perché ha una stretta affinità con l’altro mito della giustizia sociale.
Come si fa a stabilire se una persona merita oppure non merita? I modi sono due: o ci si affida ad un meccanismo impersonale come quello dei prezzi di mercato, e si stabilisce l’equazione merito=risultati (un imprenditore è meritevole, nel senso di valido, se la sua impresa riesce a competere sul mercato, fornisce beni o servizi che piacciono ai clienti, che quindi li comprano, e riesce a fare questo mantenendo un margine di profitto), oppure si incaricano delle persone competenti in quell’ambito, e si chiede loro di valutare un certo tipo di persona relativamente a quell’ambito (si prenda l’ambito della filologia bizantina: si consultino i maggiori esperti del campo, e si chieda loro di valutare la capacità di analizzare i testi bizantini di un certo soggetto X).
Il problema sorge nel momento in cui la prima equazione non risulta del tutto valida (ma solo in parte), ed il secondo metodo, per quanto imprescindibile in alcuni casi, se applicato in altri, rischia di sfociare nella dittatura degli esperti. La prima non è del tutto valida in quanto, per quanto in molti casi possa esser vera (sopratutto se includiamo nel concetto di merito aspetti come la tenacia, l’astuzia, la lungimiranza, l’ottimismo, la capacità di convincere gli altri ecc) va corretta almeno con un fattore: il caso, la fortuna.
Prendete il caso di un imprenditore X, al quale viene una ottima idea; egli si prepara per portare il prodotto sul mercato, sovraintende per bene su tutto, ma un evento imprevisto manda a rotoli i calcoli prezzi-costi (una intemperie naturale, un improvviso cambio della legislazione che rende non più valido il suo progetto ecc), e non gli consente di portare a termine l’impresa; lo costringe così a liquidare quello che aveva fatto sin li. Un suo dipendente comprende che, al netto dell’imprevisto, il progetto è valido e redditizio; rileva a basso prezzo il lavoro dell’altro, si impadronisce dell’idea che, senza questa volta rovesci della fortuna, arriva sul mercato e gli consente di fare profitti. Ora: chi è meritevole dei due? Si potrebbe dire, da un certo punto di vista, che lo sono entrambi. Di certo l’idea era del primo, che ne avrebbe goduto i benefici senza che il caso di mettesse di mezzo. Forse avrebbe potuto prevedere il caso sfortunato, e attrezzarsi in modo da prevenirlo; forse si; ma fare impresa è per definizione un qualcosa di incerto, di rischioso;e che qualcosa possa andare storto, anche se l’idea è valida, è nella natura delle cose.
Questo breve esempio serve a mostrare come raggiungere un risultato sia si conseguenza di talento e merito, ma anche di una certa dose di fortuna; perlomeno il caso non deve ostacolarci. E che allora, persone che non raggiungono i risultati, possono essere, in certi casi, meritevoli quanto quelli che li raggiungono, e che sono stati baciati dal caso. Postulare una equivalenza risultato=merito è, in alcuni casi, fuorviante.
Spostiamoci allora sull’altro fronte della barricata, ed immaginiamo invece che i risultati frutto del mercato non corrispondano (o non corrispondano sempre) al merito degli agenti stessi; affermando ciò stiamo dicendo che le ricompense che gli agenti ricevono dal fornire certe prestazioni non sono congruenti con i loro talenti, i loro sforzi, i loro meriti. In genere, chi si pone da questo punto di vista, fornisce alcuni esempi di persone sotto-retribuite relativamente ai servigi che essi offrono, mentre altre sarebbero sovra-retribuite: è giusto che un calciatore prenda milioni su milioni di euro, mentre un infermiere ne riceva 1500/2000 di media? E’ giusto che un cantante pop di livello infimo guadagni milioni di dollari, mentre un ottimo esecutore di musica classica con alle spalle anni e anni di studi, esperienza in giro per il mondo, si trovi costretto a sbarcare il lunario come insegnante di musica nel complesso medio superiore di Roccapipirozzi?
Se in molti casi la fortuna, le conoscenze, il luogo e la posizione di nascita, le fortune ereditate dalla famiglia, sono fattori che più che controbilanciano un teorico merito, è tutto questo considerabile come giusto? E, ancora di più, come desiderabile?
Il soggetto morale che alberga dentro di noi ci porterebbe a dire no; ma la razionalità ci porta invece ad affermare che, per quanto un ordine di mercato non produca un piano finale dei risultati connotabili in termini di giustizia, ciononostante l’ordine di mercato è il miglior sistema che abbiamo per organizzare la nostra società.
Per quanto sia evidente che le remunerazioni degli agenti non corrispondano ad un ipotetico valore (sociale) dei loro contributi, negare questo sistema di organizzazione vuol dire individuare un criterio univoco in base al quale ripartire le risorse; suono vagamente totalitario, no?
Stabilire che il mercato è ingiusto, e che sia necessario invece un criterio diverso (e in democrazia significa votare per quel criterio, o per le persone che dovrebbero applicarlo), significa cadere in un regime totalitario; nel quale ci sono delle persone che individuano cosa è merito, e in base a cosa lo si ottiene. Il passo che porta questi “esperti” a stabilire che il merito ce l’ha, ad esempio, chi si fa portavoce di certe idee, di certi valori, è brevissimo; nell’URSS meritevole era chi serviva con fede e obbedienza cieca il partito.
In conclusione: il mercato non premia il merito (o meglio, non funziona in modo tale da premiare sempre chi merita, e punire chi non merita); in un sistema di mercato i meritevoli (sempre da un certo e personale punto di vista) possono perdere, i non meritevoli vincere.
Una compiuta meritocrazia si può avere solo obbligando la società in toto a rispondere ad un unico criterio, in base al quale calcolare i premi; in questo modo però siamo sicuri di escludere quelli che potrebbero esser meritevoli, ma in base ad un altro criterio.
La meritocrazia, insomma, è un concetto sbagliato; che però piace in quanto strizza l’occhio alla facile retorica della giustizia sociale.
La cosa invece per cui dovremmo lottare è che chi abbia voglia, capacità, talento, non sia frustato nella sua attività da blocchi corporativi, restrizioni della concorrenza, impossibilità di prender denaro a prestito per finanziare la propria idea ecc; dovremmo, cioè, lottare perché il sistema sia nelle possibilità concorrenziale, e aperto alle novità (e alle new entry), ben sapendo quanto questo possa dar fastidio a chi, in un modo o nell’altro, il proprio posto al sole ce l’ha già, e di certo non vuole mollarlo.
E’ facile gridare per il merito, specie in un contesto come il nostro, dove più di metà degli occupati sono al riparo da qualsiasi esigenza di effettuare una prestazione suscettibile di concorrenza; ed il cui reddito è assicurato una volta e per sempre; ed è umano indignarsi perché alcuni sono sfacciatamente favoriti da un meccanismo che fornisce redditi garantiti senza chiedere contropartite valutabili in termini di prezzo; ma questo non ci deve, per quanto retoricamente efficace, far dimenticare che la meritocrazia non solo non potremmo mai averla; ma che se la avessimo, sarebbe solo in un sistema non di mercato, ma totalitario.