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SULLA LINGUA ETRUSCA, ovvietà ignorate e contraddette

Creato il 19 settembre 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

dSULLA LINGUA ETRUSCA, ovvietà ignorate e contraddettei Massimo Pittau. In Italia, negli ultimi 70 anni, in ordine allo studio della lingua etrusca sono state ignorate, trascurate e contraddette numerose e autentiche “ovvietà” di carattere linguistico e precisamente sono stati ignorati e non applicati alcuni procedimenti e metodi del tutto facili e perfino ovvi – per l’appunto -, che tutti i glottologi o linguisti storici propriamente detti siamo soliti applicare giorno per giorno nello studio di una qualsiasi lingua, appartenente a una qualsiasi famiglia linguistica.

La ignoranza e la mancata applicazione di tali “ovvietà” metodologiche e procedimenti ermeneutici o interpretativi nello studio della lingua etrusca sono dipese da un fatto certo e chiaro: negli ultimi 70 anni lo studio della lingua etrusca è stato accaparrato, monopolizzato e governato dalla “scuola archeologica italiana”, cioè dagli archeologi della terra e dell’area geografica dove per l’appunto è fiorita la grande “civiltà etrusca”.

1) Prima “ovvietà” ignorata, trascurata e contraddetta dagli archeologi italiani: non c’è uomo di cultura che non sappia e non capisca che tra l’archeologia da una parte e la glottologia o linguistica comparata e storica dall’altra esiste un oceano di differenze sia in ordine all’oggetto di studio sia in ordine ai metodi adoperati. Pertanto ogni e qualsiasi intervento che un archeologo – in quanto tale – tenti di effettuare in ordine allo studio della lingua etrusca è del tutto illegittimo, velleitario e destinato al fallimento.

E appunto dall’aver ignorato, trascurato e contraddetto questa prima, principale e pregiudiziale “ovvietà” sulla immensa differenza che esiste fra la archeologia da una parte e la glottologia o linguistica comparata e storica dall’altra sono derivate tutte le altre numerose “ovvietà” che sono state ignorate e contraddette dagli archeologi nello studio della lingua etrusca.

2) Della lingua etrusca si conservano più di 11 mila iscrizioni, con una documentazione di circa 8.500 vocaboli l’uno differente  dall’altro. È doveroso ricordare che il contenuto documentario e quindi il valore ermeneutico od interpretativo di queste 11 mila iscrizioni è subito apparso agli studiosi notevolmente ridotto, quando si sono accorti che nella massima parte quelle iscrizioni sono funerarie e quindi ovviamente brevi e ripetitive. D’altra parte, nonostante questa grave difficoltà iniziale, le due cifre citate sono chiaramente enormi e di questo loro grande vantaggio possono godere meglio solamente due conosciutissime lingue antiche, il greco ed il latino.

E allora, col procedimento metodologico della “comparazione interna”, il reciproco confronto di differenti 8.500 vocaboli – se si fosse effettuato realmente e completamente – non avrebbe non potuto portare alla “decifrazione” del significato di numerosi vocaboli etruschi.

Riconosco che questo confronto di “comparazione interna” in effetti c’è stato, ma in misura assai ridotta e ha portato alla decifrazione di sole poche decine di vocaboli continuamente ricorrenti nelle iscrizioni etrusche; MI «io, me», CLAN «figlio», CLENAR «figli», SEX «figlia», PUIA «moglie», LUPU «morto-a», LUPUCE «morì, è morto-a», AIS, EIS «dio», AISER, EISER «dèi», SUTHI, SUTI «tomba, sepolcro», i numerali TU, THU «uno», ZAL, (E)SAL «due», CI «tre», MAC, MAX «cinque»,  SEMPH «sette, CEZP «otto», NURPH «nove», SAR, ZAR «dieci», ZATHRUM «venti», CIALXL «trenta», SEALXL «sessanta» e qualche altra decina di vocaboli.

Dunque, il procedimento della “comparazione interna” fra gli 8.500 vocaboli etruschi conservati è stato in questi ultimi 70 anni applicato dagli archeologi, monopolizzatori della lingua etrusca, soltanto in misura assai ridotta. In maniera particolare essi si sono guardati bene dall’immettere nella “comparazione interna” anche il grande numero di antroponimi etruschi conservati (prenomi, gentilizi e soprannomi o lat. cognomina), del tutto convinti che questi non abbiano alcun valore ai fini della “decifrazione del significato” dei singoli vocaboli etruschi. E invece, nell’avere tralasciato di prendere in esame pure i numerosi antroponimi etruschi, gli archeologi – come mostrerò più avanti – hanno sbagliato e anche di grosso.

3) Ma assai più grave è stata la mancata “comparazione esterna” degli 8.500 vocaboli etruschi posseduti con altrettanti di altre lingue antiche e in maniera particolare ancora col greco e col latino.

Purtroppo i “numeri”, nonostante e a dispetto della loro precisione, si dimenticano con notevole facilità. In linea di fatto mi sembra di ricordare che sia dell’antica lingua greca, sia della lingua latina si conservino e si conoscano attualmente più di 100 mila vocaboli, cioè, sommati assieme, più di 200 mila; che è una cifra enorme, capace con ciò di offrire ai linguisti un vastissimo campo di ricerca e di comparazione.

Ciò premesso, considerato che Greci, Latini ed Etruschi hanno convissuto nel medesimo spazio geografico e per numerosi secoli insieme, è senz’altro assurdo ritenere che numerosi vocaboli della lingua etrusca, sconosciuti nel loro valore semantico o “significato”, non trovino esatto riscontro nei 200 mila vocaboli greci e latini, il cui “significato” invece è del tutto conosciuto. E si tratterà o di vocaboli greci e latini entrati nella lingua etrusca oppure di vocaboli etruschi entrati nella lingua greca o in quella latina. (Si deve pur finire di ritenere che un certo numero di vocaboli greci e latini siano entrati nell’etrusco e che nessun vocabolo etrusco sia entrato nel greco e nel latino; eventi di comunicazione e di scambio fra una civiltà e un altra non hanno mai un’unica e sola direzione!).

Ed allora la logica conseguenza di questa speciale e fortunata situazione linguistica generale sarebbe la seguente: il “significato” dei vocaboli latini e greci del tutto conosciuto dovrà essere il “significato” pure dei vocaboli etruschi corrispondenti. Pertanto il “significato” di tanti vocaboli etruschi si sarebbe in questo modo finalmente potuto “decifrare” e scoprire.

4) Come è stato possibile che gli archeologi italiani abbiamo ignorato e non applicato questo importante e indispensabile e quindi “ovvio” procedimento della “comparazione esterna” tra l’etrusco da un lato e il greco e il latino dall’altro? È stato possibile per la ragione che essi hanno accettato del tutto acriticamente la tesi secondo cui “L’etrusco è una lingua non comparabile con nessun’altra”.

Questa stupefacente tesi era stata per la prima volta sostenuta dallo storico greco Dionisio di Alicarnasso (I 30, 2), che era vissuto qualche decennio prima di Cristo; senonché egli non era affatto un glottologo o linguista, anche per il motivo che è stato necessario che dalla sua epoca passassero 1.800 anni prima che nascesse e si affermasse in Europa la glottologia come “studio comparato e storico delle lingue”.

In realtà la tesi secondo cui “l’etrusco è una lingua non comparabile con nessun’altra” avrebbe avuto una fondatezza scientifica solamente a una condizione: che gli archeologi italiani avessero dimostrato di conoscere tutte le lingue di tutti i popoli che sono vissuti nel passato attorno al bacino del Mediterraneo; e conoscendole tutte e alla perfezione gli archeologi avrebbero potuto alla fine concludere con la loro tesi negativa. Senonché gli archeologi italiani non hanno mai dimostrato di possedere quella vastissima e approfondita competenza di linguistica storica, ragion per cui la loro tesi della “incomparabilità della lingua etrusca con una qualsiasi altra” era ed è del tutto destituita di fondamento. D’altra parte io sono del parere che non sia esistito nemmeno un linguista propriamente detto che possedesse quella vastissima e approfondita competenza di linguistica storica, ragion per cui neppure alcun linguista sarebbe stato in grado di pronunziare e motivare tale tesi.

In effetti, quando gli archeologi hanno preso come buona e hanno divulgato la loro tesi dell’”etrusco lingua non comparabile con nessun’altra”, non solamente sono andati contro un’altra evidente e forte “ovvietà”, ma addirittura hanno invitato e imposto al linguista che avesse voluto partecipare ai loro convegni e a collaborare alle loro riviste a non far uso di quello che è lo strumento primo e principale della glottologia, la “comparazione” appunto.

Naturalmente è avvenuto che quasi tutti i linguisti, italiani e pure stranieri, non abbiano accettato questa sentenza e imposizione degli archeologi italiani, ma hanno pagato il loro rifiuto con la totale estromissione dalle grandi manifestazioni che gli archeologi hanno di volta in volta organizzato anche sul tema della lingua etrusca.

5) Ma la condanna pronunziata ed eseguita dagli archeologi del metodo della “comparazione” nello studio della lingua etrusca se ne è logicamente trascinata un’altra: la condanna della “etimologia” o del “metodo etimologico”. Questi sono vocaboli condannati, proibiti, esecrati nei convegni e nelle riviste degli archeologi rispetto alla lingua etrusca.

Ed io invece in primo luogo sostengo che essi commettono un grave errore non facendo una necessaria e importante distinzione tra la “comparazione” linguistica da un lato e la “etimologia” dall’altro. Se io confronto o connetto la glossa latino/etrusca Amphiles, Ampiles «maggio», cioè «mese dei pàmpini», col greco ámpelos «vite, vigna», io stabilisco semplicemente una “comparazione”; se invece io dicessi che l’appellativo etrusco “deriva” da quello greco oppure il contrario, allora sì farei una “etimologia”, che significa e implica appunto la “derivazione”.

Nella “comparazione” che io prospetto fra gli 8.500 vocaboli etruschi posseduti ma sconosciuti e i 200 mila greci e latini posseduti e conosciuti, è già molto importante fermarsi a questo stadio, dato che spesso ci consente di “decifrare” o acquisire appunto il “significato” dei vocaboli etruschi. Ma nessun può imporre a un linguista di non procedere oltre,  di non adoperare anche l’altro importante metodo della sua ricerca, il “metodo etimologico”. E nell’esempio fatto nessuno potrà proibire a un linguista di prospettare la tesi che i vocaboli etrusco Amphiles,Ampiles «maggio», «mese dei pàmpini», greco ámpelos «vite, vigna», lat. pampinus «pàmpino» e (proto)sardo s’ampilare «arrampicarsi anche della vite» “derivano”, uno indipendentemente dall’altro, da un vocabolo della viticoltura del “sostrato mediterraneo e preindoeuropeo”.

In effetti, pretendere da un linguista che voglia interessarsi della lingua etrusca, di non adoperare la “comparazione” né l’”etimologia” corrisponderebbe a pretendere che un uccello volasse senza adoperare le due ali.

Ed è questa un’altra “ovvietà” ignorata e contraddetta dagli archeologi: il linguista ha il diritto e il dovere sia di effettuare la “comparazione” dei vocaboli studiati sia la loro “etimologia” od origine.

6) D’altra parte è un fatto che gli archeologi italiani in maniera unanime sostengono che per la lingua etrusca “non esiste alcun problema di decifrazione”, in quanto essa sarebbe stata già “decifrata del tutto”. Ma anche con questa loro tesi essi non si accorgono di avere un concetto molto improprio e in parte errato della “decifrazione linguistica”.

Per una lingua antica di cui si abbiano soltanto documentazioni scritte, senza cioè alcun riscontro in lingue odierne, in effetti esistono due differenti “decifrazioni”, o, meglio, due differenti gradi di decifrazione. Il primo consiste nel “decifrare le lettere alfabetiche” o grafemi, cioè nel riuscire a trasformarli in suoni orali o fonemi, cioè nel riuscire a pronunziarli; e questo primo grado di decifrazione di certo è stato già effettuato per la lingua etrusca, la quale, in virtù dell’uso che gli Etruschi facevano dell’alfabeto greco, è ormai quasi perfettamente e totalmente leggibile o pronunziabile. Ma la vera e più importante “decifrazione” viene dopo, quella per cui dai grafemi si passa a capire quale effettivamente sia il significato che essi portano e nascondono, quella decifrazione per cui dai “segni grafici” si riesce a passare ai rispettivi “significati fattuali o concettuali”.

È chiaro che il vocabolo e il concetto di “decifrazione” trae origine dalla pratica dei messaggi segreti, che vengono criptati e trasmessi con “cifre”. Ebbene, in un ufficio di decifrazione militare, in cui mi sono trovato a operare durante l’ultima guerra mondiale, il nostro primo compito era quello di riuscire a “captare” esattamente le “cifre” dei messaggi cifrati del nemico, ma la vera decifrazione di questi messaggi veniva da noi effettuata solamente dopo, quando da quelle cifre captate riuscivamo a passare al messaggio che esse portavano e nascondevano, quando cioè riuscivamo a passare dai segni cifrati ai rispettivi fatti o concetti significati e trasmessi.

Ebbene, nonostante che gli archeologi italiani lo neghino con decisione, il problema della decifrazione della lingua etrusca sussiste tuttora e in larga misura. Noi leggiamo e pronunziamo in maniera quasi del tutto sicura tutti i vocaboli che compaiono nella iscrizioni etrusche, ma, a parte gli antroponimi, noi ignoriamo ancora l’esatto significato di centinaia di vocaboli etruschi.

7) Un’altra “ovvietà” ignorata e contraddetta dagli archeologi italiani è quella relativa alla scelta iniziale del materiale di studio. Non occorre grande esperienza di studi linguistici per sapere e comprendere che le iscrizioni di una lingua antica sconosciuta tanto più facilmente sono traducibili quanto più sono lunghe. Nelle iscrizioni lunghe infatti le possibilità sia della “comparazione interna” sia della “comparazione esterna” dei vocaboli sono molto più numerose che non nelle iscrizioni brevi. Oltre a ciò, nelle iscrizioni lunghe sono anche possibili gli emendamenti di eventuali errori dello scriba antico, mentre nelle iscrizioni brevi tali emendamenti sono quasi sempre impossibili. Inoltre nelle iscrizioni brevi – proprio per esigenza di brevità – si adoperano di frequente  abbreviazioni, le quali spesso risultano indecifrabili perché fatte a casaccio. E non bastando ciò, la scoperta della “falsità” di una iscrizione lunga è enormemente più facile della scoperta della “falsità” di una iscrizione breve.

Tale nuova “ovvietà” dello studio preminente del testo lungo rispetto a quello breve avrebbe dovuto spingere gli archeologi ad affrontare innanzi tutto i testi etruschi lunghi posseduti, cioè il Liber linteus della Mummia di Zagabria che, tolte le numerose ripetizioni, presenta più di 500 vocaboli, la Tabula Capuana che ne presenta circa 190, il Cippo di Perugia circa 90, la Tabula Cortonensis circa 60; invece gli archeologi si sono buttati alle iscrizioni etrusche più brevi. Alcune delle quali certamente erano di facile interpretazione e traduzione, altre invece si sono rivelate subito di difficilissima interpretazione e traduzione.

Sarebbe troppo lungo e pure inutile mostrare le lunghe e intricate diatribe che gli archeologi hanno intrecciato intorno ad alcune brevi e brevissime iscrizioni etrusche, per le quali esisteva ed esiste anche la possibilità che sia intervenuto qualche errore da parte dello scriba antico e che qualcuna sia addirittura “falsa”.

D’altra parte, nell’ambito del linguaggio, è un fatto di facile constatazione che in generale i messaggi, quanto più sono brevi, tanto più corrono il rischio di essere ambigui o almeno poco comprensibili.

8) La scarsa rilevanza significativa dell’abbastanza ricco materiale linguistico etrusco fino a noi pervenuto è derivata anche dalla circostanza che molto di quel materiale è costituito da un numero assai elevato di antroponimi (prenomi, gentilizi e soprannomi) a fronte di un materiale lessicale (appellativi, prenomi, numerali, verbi, avverbi, preposizioni e congiunzioni) assai più scarso.

Questa grave difficoltà costituita dal tipo di materiale linguistico etrusco conservatoci non si può né si deve negare, però c’era da effettuare in proposito una importante operazione, che invece non è stata neppure tentata dagli archeologi: è ben vero che gli antroponimi si presentano a una prima analisi come “opachi”, nel senso che indicano o “significano” all’ascoltatore o lettore soltanto singoli uomini e singole famiglie, però i veri linguisti sanno che, analizzati a dovere, anche gli antroponimi possono diventare “trasparenti”, nel senso che possono rivelare anche il loro originario “significato”. In origine infatti anche gli antroponimi erano altrettanti “appellativi”, costituiti quasi sempre da sostantivi o aggettivi sostantivati, pure al diminutivo o all’accrescitivo, i quali indicavano o un dato anagrafico oppure una caratteristica, fisica o morale, dell’individuo denominato. Ad esempio, i cognomi italiani Cremona, Ferrara e Verona in origine indicavano la provenienza di un famiglia da una di quelle città; i cognomi Bianchi, Neri e Rossi indicavano, col plurale di famiglia, che i rispettivi individui erano o “bianchi” o “neri, bruni” o “rossi” di carnagione; i cognomi Forti, Gagliardi , Onesti indicavano una qualità morale dei loro titolari; i cognomi Medici, Mercante, Ferrari ne indicavano la professione; il prenome etrusco Larth significava«comandante, principe» (Cicerone, Phil., 9.4; Livio, IV.17.1)e l’altro Velthur «avvoltoio», ecc, ecc.

Dunque gli antroponimi, dopo una “opacità” iniziale, interrogati a dovere dal linguista finiscono per offrire anche una “trasparenza” di valore lessicale. E allora, anche il numero elevato di antroponimi documentati dalle iscrizioni etrusche, se fossero stati analizzati secondo le norme e le modalità della linguistica, avrebbero finito con l’offrire anch’essi numerosi e importanti elementi e spunti lessicali relativi alla lingua etrusca.

9) Fra i popoli della Penisola italiana coi quali gli Etruschi vennero in contatto, quello più vicino furono i Romani. Fra i secoli VIII e VI gli Etruschi e i Romani vissero quasi in una stretta simbiosi. Si deve infatti considerare che il fiume Tevere non era considerato allora al centro del Lazio, ma era considerato il confine fra i Romani e gli Etruschi appunto. Per questa ragione la stessa Roma non era considerata al centro del Latium vetus, ma era considerata una città di confine, fra l’Etruria e il Lazio appunto. Tanto è vero che lo stesso toponimo Roma molto probabilmente era etrusco, cioè una variante dell’appellativo ruma «mammella», indicando il grande “seno” o grande curva che il Tevere fa all’altezza dell’Isola Tiberina e inoltre che lo stesso nome del fiume molto probabilmente era etrusco. Non solo, ma all’epoca della monarchia vigente a Roma, la regnante dinastia dei Tarquini era di nazionalità etrusca e inoltre aveva retto la città non per qualche decina di anni come si pensa e si dice comunemente, ma per più di un secolo. Perfino le più antiche iscrizioni che sono state rinvenute a Roma sono in lingua e alfabeto etruschi e non in lingua latina.

Ebbene, nei lunghi e stretti contatti che gli Etruschi e i Romani ebbero soprattutto in epoca monarchica, è evidente e certo che siano intervenuti numerosi scambi di vocaboli fra le rispettive lingue e soprattutto di antroponimi. La qual cosa è stata luminosamente dimostrata dalla vecchia ma ancora importante e geniale opera di Wilhelm Schulze, Zur Geschichte Lateinischer Eigennamen (1904), il quale ha messo in evidenza una vasta corrispondenza di antroponimi latini con altrettanti etruschi. Nella mia recente opera Dizionario della Lingua Etrusca (Sassari 2005) ritengo di avere – in virtù dei successivi rinvenimenti di nuove iscrizioni etrusche – notevolmente allargato il numero di quelle corrispondenze, arrivando al numero di circa 1.600 antroponimi etruschi che corrispondono, in maniera più o meno sicura, ad altrettanti antroponimi latini.

Ma – come ho accennato prima – anche i gentilicia e i cognomina latini, oltre che il loro valore propriamente antroponomastico, ne hanno pure uno lessicale e ne ho tratto la conclusione che il valore lessicale degli antroponimi etruschi è quello stesso dei corrispondenti antroponimi latini. Dunque la “comparazione” e connessione fra gli antroponimi latini e quelli etruschi ha consentito di allargare fino a circa 1.600 il numero di vocaboli etruschi di cui, più o meno, conosciamo ormai anche il valore lessicale e semantico, di allargare cioè il numero di vocaboli etruschi di cui abbiamo, più o meno, decifrato il valore semantico o “significato” prima ignorato.

10) È cosa molto nota che gli Etruschi, nella loro qualifica largamente riconosciuta dagli antichi, di popolo “molto religioso” (che significava anche “molto superstizioso”; erano già soliti fare, per scaramanzia, le corna con le dita), influenzarono parecchio la religione dei Romani. Sia sufficiente ricordare che della Triade Capitolina dei Romani, solamente Giove era propriamente romano, mentre le due altre divinità femminili Giunone e Minerva erano certamente di origine etrusca. Era pertanto un’altra ovvietà linguistica supporre che per i profondi influssi etruschi sulla religione romana fosse entrata nella lingua latina anche tanta parte della relativa terminologia religiosa degli Etruschi. E questo ingresso della terminologia religiosa etrusca nella lingua latina era logico ed “ovvio” supporlo e appurarlo nei più lunghi testi che possediamo della lingua etrusca, il Liber Linteus della Mummia di Zagabria e la Tabula Capuana, dei quali si era subito compreso che si trattava per l’appunto di “testi religiosi”.

Ma gli archeologi italiani hanno tralasciato anche di tentare di effettuare quest’opera di ricerca e di controllo, dato che si erano guardati bene dall’affrontare i grandi testi della lingua etrusca, mentre – come ho già detto – si sono scervellati nella interpretazione e nella traduzione delle sole iscrizioni brevi.

Tutto al contrario io mi sono buttato nello studio approfondito proprio dei lunghi testi religiosi etruschi, facendo perno appunto nella convinzione che almeno una certa parte della loro terminologia religiosa corrispondesse esattamente a quella latina. E i risultati da me ottenuti con questa prospettiva metodologica ed ermeneutica sono andati molto al di là delle mie più rosee speranze, ottenendo come risultato finale che nella mia recente opera I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati (Sassari 2011) io abbia mandato avanti la più ampia interpretazione e traduzione che sia stata finora effettuata di quei testi religiosi.

11) È cosa molto nota che il padre della storiografia occidentale, il greco Erodoto (484-425 a. C.), in un suo passo molto famoso (I 94), racconta che gli Etruschi dell’Italia non erano altro che la metà della popolazione della Lidia – terra dell’Asia Minore o Anatolia, posta al centro della costa del Mar Egeo – la quale era dovuta emigrare a causa di una grave carestia durata ben 18 anni. Questo racconto di Erodoto fu in seguito confermato e anche arricchito di particolari da altri 30 autori greci e latini, mentre fu contrastato dal solo storico greco, Dionisio di Alicarnasso, il quale invece sostenne la tesi secondo cui gli Etruschi erano originari della stessa Italia, erano cioè “autoctoni”. Dionisio era vissuto quattro secoli dopo Erodoto e quindi assai più tardi degli avvenimenti narrati ed inoltre era stato sostanzialmente ostile agli Etruschi, dei quali contestava l’apporto alla potenza di Roma, per attribuirla invece ai Greci.

Ebbene, era logico e perfino “ovvio” che tra i 31 antichi autori greci e latini (Erodoto + 30) favorevoli alla tesi migrazionista degli Etruschi e uno solo – e per di più “sospetto” – favorevole alla tesi autoctonista, gli archeologi italiani dovessero optare per la tesi dei primi, e invece optarono per la tesi del secondo. Bell’esempio, questo, di grande “acribia storiografica”, nuovo macroscopico episodio di “ovvietà” metodologica ignorata e contraddetta: optare per la testimonianza di un solo teste e disattendere quella di altri 31 testi!

A questo proposito io aggiungo che pure la nota usanza religiosa e civica degli Etruschi, di indicare il passaggio di ogni anno con l’affissione di un chiodo nel tempio della dea Northia (Livio VII 3.7), induce a intendere che gli Etruschi avessero ancora la chiara memoria storica della data del loro arrivo in Italia, data che costituiva l’inizio di quella usanza e che ovviamente essi avevano grande cura di ricordare. Questa loro usanza invece non avrebbe avuto alcuna ragione di esistere, se fosse stato vero che gli Etruschi si trovavano in Italia da sempre.

Invece, ad iniziare dagli anni Cinquanta del secolo scorso fino al presente, fra gli archeologi italiani regna sovrana questa tesi: «Non esiste il problema dell’origine degli Etruschi, dato che essi erano esclusivamente di “formazione” italiana, erano cioè “autoctoni”.  E tutto questo si sostiene da parte degli archeologi, nonostante che alcuni linguisti stiamo da anni dimostrando numerose connessioni esistenti fra la lingua etrusca da un lato e alcune lingue dell’Asia Minore dall’altro!

12) A iniziare dal 1947, col suo libro L’origine degli Etruschi (Roma 1947), Massimo Pallottino, capo della scuola archeologica italiana, non ha più voluto che si parlasse della “origine degli Etruschi” e di fatto almeno qui in Italia non se ne è più parlato per numerosi decenni. Secondo lui, quello della “origine degli Etruschi” sarebbe un problema privo di senso, come lo sarebbe quello della “origine dei Francesi”. L’ethnos etrusco – egli ha ragionato – è nato e si è sviluppato, cioè si è “formato” soltanto in Italia, proprio come la civiltà francese è nata e si è sviluppata, cioè “formata” soltanto in Gallia.

Questo concetto della “formazione della civiltà etrusca” avvenuta soltanto in Italia, analogo a quello della “formazione della civiltà francese” avvenuta soltanto in Francia, è stato un punto assolutamente fermo e indubitabile, il quale ha condizionato dal 1947 in poi quasi tutti gli studi relativi alla civiltà etrusca e perfino quelli relativi alla lingua etrusca. Eppure con un po’ di attenzione si sarebbe potuto vedere che quel concetto di “formazione” aveva un suo punto debole: era sufficiente osservare che, pur concedendo che “la civiltà francese si è formata soltanto in Francia”, niente vieta a uno studioso di mettersi il problema delle “origini” degli elementi che hanno contribuito alla formazione della civiltà francese, e precisamente il problema della “origine dell’elemento latino” che proveniva dall’Italia e il problema della “origine dell’elemento franco” che proveniva dalla Germania. In maniera analoga, pur concedendo che “la civiltà etrusca si è formata in Italia”, niente vieta a uno studioso di mettersi il problema della “origine dell’elemento orientale” che è presente in maniera evidente e massiccia nella civiltà etrusca (addirittura è stato giustamente chiamato “l’Orientalizzante”) e che proveniva dalla Lidia nell’Asia Minore.

In conseguenza di ciò la scuola archeologica italiana ha sempre insistito sulla perfetta continuità che si constaterebbe tra l’antica cultura villanoviana dell’Italia centrale e la successiva civiltà etrusca, mentre l’illustre storico francese della civiltà antica Jean Bérard (La Magna Grecia – storia delle colonie greche dell’Italia meridionale, Torino 1963, pg. 493) ha fatto osservare che “La civiltà etrusca dell’età storica si afferma in opposizione a quella villanoviana nel cui seno si sviluppa; e nulla è più diverso e contrastante dalle povere tombe a incinerazione del periodo villanoviano delle ricche camere funerarie del periodo etrusco vero e proprio“.

D’altronde anche un altro illustre studioso francese, profondo conoscitore e illustratore della civiltà etrusca, Jacques Heurgon, ha sostenuto, sia pure in maniera molto diplomatica, la tesi dell’origine orientale degli Etruschi (cfr. La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris 1961; Rome et la Méditerranée occidentale jusqu’aux guerres puniques, Paris 1969).

13) Esistono abbastanza numerose e abbastanza evidenti connessioni culturali e linguistiche che legano con l’Asia Minore od Anatolia anche la antica civiltà dei Sardi Nuragici della Sardegna, quella che è stata la prima “civiltà” dell’Italia, dato che ha preceduto quella degli Etruschi di ben quattro secoli (XIII-IX avanti Cristo). Esistono inoltre alcuni accenni di antichi storici greci, dai quali emerge che pure i  Sardi Nuragici provenivano – proprio come gli Etruschi – dalla già citata Lidia, nell’Asia Minore. Ed è pure assai probabile che i Sardi abbiano derivato la loro denominazione e quella della loro terra Sardò-Sardinia dal nome di Sardis o Sardeis, capitale della Lidia.

Connessioni culturali tra i Sardi Nuragici e gli Etruschi erano già state ritrovate e indicate da parecchi decenni: tholos o “cupola” di tombe etrusche simile a quella delle torri nuragiche; navicelle funerarie – di lontana origine egizia – ritrovate in tombe etrusche, del tutto simili a quelle nuragiche; statuine in bronzo etrusche di sacerdoti, sacerdotesse, fedeli e animali simili a quelle nuragiche, armi etrusche simili ad armi nuragiche.

Queste strette connessioni culturali fra gli Etruschi e i Sardi Nuragici trovano la loro spiegazione nella importante circostanza che la Sardegna era ed è a un tiro di schioppo dall’Etruria. Per gli abitanti delle città etrusche della costa tirrenica – che erano quelle più antiche – Cerveteri, Tarquinia, Vetulonia e Populonia era molto più facile, veloce e sicuro raggiungere la Sardegna che non le città etrusche del Mar Adriatico, Spina e Adria.

E nonostante quest’altra “ovvietà” delle strette ed evidenti connessioni culturali e di vicinanza geografica, quando con la mie prime opere La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi e Lessico Etrusco-Latino comparato col Nuragico (Sassari 1981, 1984), segnalai l’esistenza anche di connessioni linguistiche fra i relitti della lingua dei Sardi Nuragici con quella degli Etruschi, gli archeologi italiani non si dettero la briga di prestare alcuna attenzione. Non obiettarono nulla, ma stesero sull’argomento un velo di totale silenzio.

Soltanto un archeologo dell’Università di Perugia intervenne con un suo articolo pubblicato in un quotidiano romano per “distruggere” il mio libro. Gli replicai subito dimostrandogli che non aveva nessuna competenza per giudicare un libro di linguistica storica e che – assai peggio – non lo aveva neppure letto! Qualche anno dopo lo stesso personaggio ha ritenuto di intervenire sulla mia traduzione della Tabula Cortonensis, dimostrando però di nuovo totale incompetenza linguistica, tanto da non conoscere la differenza tra il “genitivo soggettivo” e il “genitivo oggettivo” (cfr. I Grandi Testi cit., Capo 3°, pg. 129).

14) Nella tesi pregiudiziale unanimemente e acriticamente accettata dagli archeologi italiani, secondo cui “l’etrusco è una lingua non comparabile con nessun’altra” era ed è implicita l’altra tesi secondo cui “l’etrusco non è una lingua indoeuropea”.

È del tutto evidente e ancora “ovvio” che per affrontare questo argomento sulla indoeuropeità o meno della lingua etrusca occorre possedere una molto ampia e molto profonda preparazione glottologica, cioè di “linguistica storica e comparativa”; cosa che evidentemente non appartiene affatto alla preparazione scientifica di un archeologo. E ciò nonostante la tesi o la pregiudiziale della “non-indoeuropeità dell’etrusco” è forse quella più ampiamente e più comunemente sostenuta e ripetuta dagli archeologi italiani.

Eppure non sono pochi né poco autorevoli i glottologi che invece hanno sostenuto la tesi della indoeuropeità dell’etrusco: W. Corssen, S. Bugge, I. Thomopoulos, E. Vetter, A. Trombetti, E. Sapir, G. Buonamici, E. Goldmann, P. Kretschmer, F. Ribezzo, F. Schachermayr, A. Carnoy, V. I. Georgiev, W. M. Austin, R. W. Wescott, F. C. Woudhuizen, F. Bader, F. R. Adrados, ecc. ed a questa schiera si unisce anche l’autore del presente studio.

Premetto che è abbastanza noto che la scoperta dell’unità linguistica indoeuropea è stata storicamente e primariamente conseguita per la constatazione che i numerali della prima decade di molte lingue risultano corrispondersi fra loro. Ebbene, per parte mia ho perfino dimostrato che per l’appunto anche quasi tutti i numerali etruschi della prima decade corrispondono a quelli di altre lingue indoeuropee (cfr. M. Pittau, Tabula Cortonensis – Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati cit., capo  5 ; che si può leggere anche nel mio sito http://www.pittau.it).

Oltre a ciò io ho avuto modo di mostrare e sottolineare la straordinaria e piena convergenza che si constata fra la lingua etrusca e altre lingue indoeuropee sui seguenti punti (LEGL § 5):

a) congiunzione enclitica etrusca –c, –ca,ce uguale a quella sanscrita –ca e latina –que (Senatus Populus-que Romanus) (LEGL § 110).

b) morfema –s del genitivo singolare etrusco uguale a quello del latino, del greco e di altre lingue indoeuropee (LEGL § 48).

c) morfema –i del dativo etrusco uguale a quello del latino e del greco (LEGL § 57).

d) desinenza del participio presente etrusco -nth (AMINTH «Amante», CLEVANTH «offerente», NUNTHENTH «orante») uguale a quella -nt- del latino e del greco (LEGL § 124).

e) desinenza del preterito etrusco –ke, -ce uguale a quello greco –ke: etr. TURICE, TURUCE, TURCE, TURKE «donò, ha donato» da confrontare col greco dedórheke «donò, ha donato».

f) desinenza del locativo etrusco -t(e), -t(i), -th(e), -th(i) uguale a quello greco, anche se raro, óikothi «in casa», thyrhethi «alla porta, fuori», Ilióthi «in Ilio» (LEGL § 59).

g) avverbio etrusco TUI«qui» uguale a quello greco tyi «qui» (LEGL § 109).

 

Potrebbero queste sembrare convergenze di scarsissimo rilievo, data la ridottissima consistenza fonetica di quei morfemi e di questo avverbio, ma al contrario si deve rimarcare la loro forte consistenza dimostrativa, posto che, per la “norma dell’economia” che – come è noto – gioca un ruolo enorme anche nel campo delle lingue, i fatti linguistici più frequenti e cioè più importanti sono quelli che hanno la struttura fonetica più breve e semplice (LEGL § 48).

E soprattutto si deve rimarcare che quelli citati sono fatti linguistici relativi non al lessico, in cui i prestiti tra le lingue sono molto frequenti, bensì alla “morfologia”, in cui i prestiti sono rarissimi.

Dunque anche quest’ultima e assai consistente “ovvietà linguistica” è stata ignorata e contraddetta dagli archeologi italiani, che presumono di essere in grado di trattare anche di problemi della “lingua etrusca”: la loro preparazione scientifica di fondo non consente loro di intervenire per nulla sulla questione della indoeuropeità o meno della lingua etrusca.

15) Con una così lunga serie di “ovvietà” relative a specifiche competenze scientifiche, ad esatti procedimenti linguistici, – metodologici ed ermeneutici – ignorate, trascurate e contraddette, era logico e necessario che la scuola archeologica italiana, monopolizzando la lingua etrusca, finisse col determinare quello che indubbiamente è stato il più grande “fallimento filologico-linguistico” che ci sia mai stato in tutta la storia delle discipline filologiche e linguistiche, ad iniziare dalla filologia alessandrina fino al presente. E si tratta di un “fallimento” che va avanti ormai da 70 anni e neppure accenna a diminuire!

In questo preciso modo e per questi esatti motivi si spiega un fatto che nell’apparenza poteva finora riuscire del tutto inspiegabile: lingue antiche scoperte in tempi recenti e documentate con scarse e poco consistenti iscrizioni o brani di iscrizioni, nel giro di qualche decennio sono state dai linguisti decifrate, tradotte e classificate. È il caso delle seguenti lingue: sumero, ittito, hurritico, urartaico, elamitico, ugaritico, licio, lidio, frigio, ecc. Invece rispetto alla lingua etrusca, documentata da circa 11 mila iscrizioni e anche con testi abbastanza consistenti come il Liber linteus e la Tabula Capuana, i progressi ermeneutici e di studio effettuati dalla scuola archeologica italiana in questi ultimi decenni sono stati quasi impercettibili. L’enormità di questo “fallimento culturale” è proprio direttamente proporzionale al grande potere politico, organizzativo ed economico che gli archeologi italiani posseggono e di cui si servono ampiamente.

Sull’argomento si deve osservare che gli archeologi – soprattutto quelli italiani – hanno un potere politico, organizzativo ed economico enorme, che nessun’altra categoria di studiosi di discipline umanistiche, filologi linguisti storici sociologi antropologi ecc., neppure lontanamente si sogna di possedere.

Innanzi tutto gli archeologi hanno un potere politico enorme, dato che, con strumenti giuridici alla mano, sono in grado di bloccare o trasformare piani regolatori di città, impedire o bloccare costruzioni private e pure di pubblica utilità, far deviare ferrovie, strade, autostrade e aeroporti, dichiarare autentici o falsi reperti che in conseguenza acquistano o perdono valore. E per questa ragione gli archeologi sono temuti, rispettati, vezzeggiati e aiutati dai politici e dagli amministratori pubblici di qualsiasi livello.

In secondo luogo, siccome gli archeologi sono i “custodi” di una notevole parte del “patrimonio archeologico-artistico” dell’Italia – che costituisce anche la sua più grande e più vera ricchezza economica – per questo loro ufficio essi ottengono grandi finanziamenti dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province, dalle Comunità Montane, dai Comuni e dalle Banche, finanziamenti coi quali essi sono in grado di organizzare, con totale loro autonomia e discrezione, scavi sul terreno, restauri di monumenti, mostre, convegni e stampare tutte le pubblicazioni e le riviste scientifiche che vogliono.

Nel 1985 è stato organizzato nelle aree dell’antica Etruria, Toscana Umbria e Lazio settentrionale, il II Convegno Internazionale Etrusco (il I era stato organizzato nel lontano 1929), al quale hanno partecipato ben 600 convegnisti provenienti da tutte le parti del mondo e in occasione del quale sono state aperte in differenti città grandi e belle mostre e stampata una serie di belle pubblicazioni sui vari aspetti della civiltà etrusca. Per la organizzazione di quel grandioso Convegno sembra che coi contributi finanziari dello Stato, delle regioni della Toscana, dell’Umbria, del Lazio e dell’Emilia Romagna, dei Comuni di varie grandi città, della Fabbrica Italiana Automobili FIAT e della banca Monte dei Paschi di Siena, si sia raggiunta la somma di 4 miliardi di lire italiane (si è pure parlato della somma di 14 miliardi, ma io non la credo esatta). In ogni modo si è trattato di una gran bella somma, con la quale non era poi tanto difficile organizzare un così grandioso convegno.

Per la stessa grande disponibilità di mezzi finanziari che amministrano, gli archeologi hanno un facilissimo accesso in tutte le grandi case editrici, le quali d’altronde sono sempre disponibili a pubblicare libri pieni di belle fotografie e di numerosi disegni dei monumenti archeologici. E per questo medesimo motivo gli archeologi hanno facilissimo accesso nei quotidiani e nei rotocalchi, con interviste concesse e con articoli stesi per la larga divulgazione.

Oltre a ciò nelle case editrici gli archeologi sono anche in grado di bloccare e boicottare pubblicazioni che non siano di loro gradimento. Espongo un caso personale: un noto e importante editore di Firenze si era dichiarato disponibile e felice di pubblicare la mia opera Dizionario della Lingua Etrusca (Sassari 2005), che comprende analizzato e spesso tradotto l’intero patrimonio lessicale della lingua etrusca che è stato rinvenuto e pubblicato sino all’anno 2005; e si trattava del primo e unico vocabolario generale della lingua etrusca che esistesse. Di questo mio Dizionario della Lingua Etrusca Riccardo Ambrosini, professore di Linguistica nell’Università di Pisa, nonché Presidente della «Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti», nella quale mi aveva chiamato per tenere due conferenze, una sulla Tabula Cortonensis e l’altra appunto sul mio Dizionario, mi aveva scritto da San Lorenzo di Moriano in data 18.11.2005: «Carissimo Pittau, ho appena ricevuto il Tuo stupendo Dizionario della Lingua Etrusca e mi sono affrettato a leggerne alcune pagine che attraevano la mia immediata curiosità. Non posso non congratularmi con Te per la sapiente disposizione del materiale e per la prudenza di alcune proposte, che ben sottolinei nella chiarissima introduzione. (….) Complimenti vivissimi e, scusami una sentita invidia per questo Tuo magnifico lavoro, e, insieme con questi, i ringraziamenti più vivi e i saluti più cordiali. Tuo [firmato]». Senonché l’editore fiorentino fu dissuaso dal pubblicare quel mio Dizionario almeno da alcuni membri dell’”Istituto di Studi Etruschi ed Italici” di Firenze, scusandosi poi con me col dire che con quell’Istituto egli aveva rapporti continui ed organici…

Infine quelli che sono i “beni archeologici e artistici pubblici”, cioè appartenenti alla Nazione italiana, i direttori dei vari musei archeologici riescono spesso a renderli “privati”, tralasciando di mostrarli ad altri studiosi e adoperandoli invece per le loro pubblicazioni personali. Una dozzina di anni or sono il Soprintendente ai Beni Archeologici della Toscana, essendo entrato in possesso dei sette frammenti della ormai famosa Tabula Cortonensis, li tenne nascosti per più di cinque anni, per metterli finalmente in circolazione con una sua pubblicazione personale (cfr. M. Pittau, Tabula Cortonensis – Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati, Sassari 2000, pgg. 41-42).

Ebbene, con tutto questo loro immenso potere politico, amministrativo ed economico non è stato difficile agli archeologi italiani accaparrarsi, monopolizzare e governare pure la lingua etrusca: essi sono in grado di organizzare e governare tutti i convegni sulla lingua etrusca che vogliono, scegliere gli oratori ufficiali, ovviamente escludendone quelli da loro non graditi, stampare pubblicazioni relative alla lingua etrusca, accettare oppure respingere gli studi linguistici dalle loro riviste – in particolar modo quella ricchissima di mezzi che sono gli “Studi Etruschi” di Firenze.

Infine – last but not least – gli archeologi ovviamente governano a loro totale piacimento, oltre che la assegnazione delle Soprintendenze Archeologiche regionali, le cattedre di Etruscologia nelle Università di tutta Italia, cattedre nelle quali essi si prefiggono e si illudono di saper insegnare pure la lingua etrusca, anche con l’ausilio didattico di alcuni manualetti, che io, autore pure della fortunata opera La Lingua Etrusca – grammatica e lessico (Nùoro 1997; sigla LEGL), non esito a definire “indecorosi”, dato che si limitano ad esporre nozioncine di lingua etrusca risalenti alla metà del secolo scorso.

16) A questo punto sorge spontanea e doverosa la domanda: come si sono comportati in questo settantennio e come si comportano attualmente rispetto alla lingua etrusca i glottologi o linguisti propriamente detti?

Qualche linguista si è allineato del tutto alle posizioni degli archeologi ed è stato da questi accolto bene in tutte le loro iniziative, convegni, pubblicazioni e riviste, e assieme con essi condivide la gloria e il potere.

Qualche altro linguista ha tentato di entrare nel mondo della etruscologia italiana, ma con tesi linguistiche non perfettamente allineate con quelle degli archeologi, col risultato però che non ha avuto fortuna e si è dovuto ritirare dal campo.

Comincio col citare il caso del glottologo Marcello Durante, autore dell’importante studio Considerazioni intorno al problema della classificazione dell’etrusco – “Parte Prima” (in “Studi Micenei ed Egeo-Anatolici”, VII, 1968, pgg. 7-60), nel quale connetteva la lingua etrusca con antiche lingue anatoliche e nel quale c’era l’annunzio di una successiva “Parte Seconda”. Avendo un giorno chiesto al collega Durante quando sarebbe comparso il secondo studio da lui già preannunziato, mi rispose, molto amareggiato, che aveva rinunziato del tutto a quella sua idea dopo che aveva constatato la totale indifferenza con cui gli archeologi italiani avevano accolto il suo primo studio…

E assoluta indifferenza hanno manifestato gli archeologi italiani per uno studio di un altro glottologo dell’Università di Pavia, specialista in lingue anatoliche, Onofrio Carruba, L’origine degli Etruschi: il problema della lingua (Atti VI Convegno Internazionale di Linguisti, Milano 1974 Brescia 1977, pgg. 137-151), il quale, pure lui, connetteva l’etrusco anche con antiche lingue dell’Asia Minore. Anzi, mentre mi è capitato di vedere citato qualche volta da parte degli archeologi italiani il citato studio di Marcello Durante, su quello del Carruba è calato un silenzio totale. E se ne capisce il motivo di fondo: il Carruba aveva osato trattare esplicitamente il tema della origine degli Etruschi, che era un tema proibito e scomunicato dalla scuola archeologica italiana…

Né migliore sorte hanno avuto in epoca successiva altri linguisti che hanno riportato la lingua etrusca ancora al quadro delle antiche lingue dell’Asia Minore: Vladimir I. Georgiev, La lingua e l’origine degli Etruschi (1979), e Lydiaka und Lydisch-Etruskische Gleichungen (1984); e Francisco R. Adrados, Etruscan as an IE Anatolian (but not Hittite) Language (1989) (in “The Journal of Indo-European Studies”, Washington 1989, Monograph no. 5, pgg. 363-383.   

E infine il sottoscritto, glottologo che ha scritto più di tutti sulla lingua etrusca (12 libri e un centinaio di studi) e che nella sua ricerca e analisi ha coinvolto l’elevato numero di circa 1.000 appellativi, 2.500 antroponimi e 1.600 testi etruschi: totale indifferenza da parte degli etruscologi-archeologi, assoluto silenzio da parte loro!

Però c’è da segnalare e da deprecare che in generale i linguisti, italiani e stranieri, sono stati e si sono tenuti da parte rispetto alla lingua etrusca, ovviamente perché intimoriti dallo strapotere degli archeologi e dall’ostracismo da loro esercitato nei confronti degli “eretici”.

Ma probabilmente ancora più grave è il “fallimento culturale” relativo alla lingua etrusca, provocato dagli archeologi, rispetto alla grande massa di lettori e di appassionati, che in Italia e in Europa sono numerosissimi: per effetto della tesi  pregiudiziale degli archeologi circa il fatto che “l’etrusco è una lingua non comparabile con nessun’altra”, corre nel grande pubblico intellettuale e perfino fra gli insegnanti di ogni scuola, ordine e grado, il grave pregiudizio secondo cui la “lingua etrusca è tutta un mistero”, “la lingua etrusca è una “sfinge impenetrabile”, della quale non si è finora riusciti a “decifrare” assolutamente nulla…

E questo pregiudizio che corre nel grande pubblico intellettuale se ne trascina un altro addirittura più grave e molto pittoresco: nella stampa quotidiana, nei rotocalchi, nelle trasmissioni delle varie televisioni, almeno ogni semestre si fa avanti un genialoide “scopritore della chiave di decifrazione dell’etrusco”. Ed egli si gode per alcuni mesi la fama e la gloria mediatica, fin tanto che questa viene oscurata dopo un po’ di tempo da un nuovo “scopritore della chiave di decifrazione dell’etrusco”….

Questi sono dunque i risultati effettivi del monopolio e del governo che della lingua etrusca ha fatto una categoria, anzi una “casta” di individui tanto potenti, che riescono a far passare per “competenza linguistica” e a millantarla quella che invece non lo è affatto!

Massimo Pittau

Professore Emerito dell’Università di Sassari

Nota bene: i necessari riferimenti bibliografici si possono trovare nello scritto dello stesso Autore, 50 anni di studi sulla lingua etrusca in Italia, che si può leggere anche nel suo sito internet.

Featured image, Testa di urna cineraria etrusca a forma di vaso canopico, in terracotta, Da Chiusi, sec. VI a.C. Museo archeologico regionale di Palermo. Foto di Giovanni Dall’Orto, 28, settembre 2006. Fonte Wikipedia.


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