Emile Durkheim
di Michele Marsonet. Quando si parla di scienze umane e sociali, la tendenza di Durkheim e dei positivisti è trascurare il mentale a favore del fisico. Indubbiamente gli esseri umani possono essere studiati scientificamente ma, parecchi replicano, non “in quanto” esseri umani, e certamente non in quanto esseri sociali. Ciò consegue dal fatto che uno studio delle relazioni sociali tra gli uomini dipende dalla capacità di riconoscere l’azione umana.
Come possiamo scoprire ciò che gli individui stanno facendo o hanno fatto, e come possiamo descrivere e classificare le loro azioni? Nessuno negherebbe che, in un senso ovvio, le azioni possono essere osservate, né che esse presentano all’osservatore caratteristiche empiricamente descrivibili. Quando gli individui compiono delle azioni si possono vedere i loro corpi in movimento rispetto ad altri oggetti, parti del corpo che cambiano le loro posizioni e relazioni spaziali, si possono sentire i suoni da loro emessi, e così via.
Ma secondo gli antiempiristi questa descrizione dell’aspetto fisico del comportamento non è una descrizione di azioni, di individui che agiscono; né potrebbe diventarlo semplicemente fornendo descrizioni fisiche più dettagliate, fornendo per esempio una descrizione fonetica dei suoni, o una descrizione dei movimenti in termini di misurazioni esatte. Un braccio che si solleva rispetto al corpo non è la stessa cosa di un uomo che alza il braccio, per quanto il primo fatto avvenga sempre al verificarsi del secondo.
La differenza è precisamente quella tra il movimento di un oggetto e un’azione umana. In un certo senso, tuttavia, sono entrambi lo stesso evento, o sono piuttosto descrizioni alternative del medesimo evento. E proprio qui sta il nocciolo della questione. Per considerare un evento come azione umana sarebbe necessario interpretare i suoi tratti empiricamente osservabili in termini di “categorie mentali”, e presupporre l’applicabilità di tali categorie a ciò che è osservato. Soltanto se si assume che il corpo al quale appartiene il braccio che si alza appartiene altresì a una “persona” con intenzioni, scopi e desideri, e che l’atto di sollevare il braccio è un suo atto intenzionale, si vede effettivamente una persona che alza il braccio.
In altre parole è l’aspetto “intenzionale” del comportamento, non le sue caratteristiche fisiche, ciò che costituisce l’unità di un’azione. Consideriamo un’azione piuttosto complessa come la costruzione di una casa. Essa è composta da un certo numero di azioni più semplici e disparate (come pulire il terreno, dare alle pietre la forma voluta, segare il legno, impastare il cemento, etc.), svolte in modo discontinuo e anche in luoghi diversi. Tutte queste azioni possono essere comprese come parti dell’azione complessa di costruire una casa soltanto in riferimento al “proposito” dell’agente nel compierli. Parimenti, azioni semplici analoghe possono rientrare in azioni complesse del tutto diverse: segando del legno un individuo può costruire una casa o preparare un falò, ed è il suo proposito, non già i suoi movimenti manifesti, a distinguere le due azioni tra loro.
A quest’analisi si potrebbe obiettare che il cosiddetto aspetto intenzionale del comportamento può, dopo tutto, essere individuato attraverso l’osservazione empirica, senza alcun bisogno di postulare una mente cosciente “dietro” il comportamento. L’idea, in breve, è che lo scopo del comportamento è il risultato finale che esso tende a realizzare. Così potremmo riconoscere i vari movimenti implicati nella costruzione di una casa come parti di quell’azione complessa in base alla loro tendenza a portare a compimento una casa. O ancora, potremmo riconoscere i movimenti compiuti per segare legna come parte della preparazione di un fuoco in base all’osservazione del risultato che si ottiene da essa.
Tale approccio tende a negare qualsiasi discontinuità di principio tra il comportamento umano e quello di entità non umane come gli animali e persino le macchine. Seguendo questa traccia sembra naturale attribuire azioni agli animali, anche se non possiamo essere sicuri che essi abbiano intenzioni consapevoli; e sembra anche che lo facciamo nei termini dei risultati che il loro comportamento tende a realizzare. Così persino le risposte insegnate agli animali dagli psicologi comportamentisti devono essere considerate azioni, e non semplici movimenti. I topi, per esempio, imparano ad abbassare una leva, azione che corrisponde a movimenti differenti in circostanze differenti (il topo può usare le zampe o i denti), poiché l’aspetto costante in ciò che è appreso è precisamente il risultato finale che questi movimenti tendono a realizzare.
Pure il comportamento istintivo degli animali inferiori, come la costruzione del nido da parte delle vespe, manifesta tale caratteristica. E così sarebbe quello delle macchine, che possono essere costruite allo scopo di realizzare un determinato stato di cose, e di adattare in tal modo il loro comportamento alle circostanze.
I teorici della comunicazione, come Norbert Wiener, hanno suggerito che proprio questa è la natura del comportamento intenzionale. Come un missile teleguidato cerca di colpire il bersaglio adattando la rotta sulla base delle informazioni circa la sua posizione rispetto all’obiettivo, così una persona che prende una tazza adatta la posizione e l’orientamento della sua mano alla luce dell’informazione sulla sua posizione rispetto alla tazza, in modo da poterla prendere. Questo orientamento “in vista di uno scopo” del comportamento costituirebbe la sua “intenzionalità” e, per così dire, il suo “essere azione”, e l’azione umana intenzionale è pertanto assimilabile al comportamento di animali e di macchine.
Tale argomento non è tuttavia convincente. Lo scopo di un’azione è effettivamente l’obiettivo al quale è diretta, ma quest’ultimo non può essere identificato con il risultato cui dà luogo. Essi coincidono soltanto se l’agente in primo luogo “credeva” (correttamente) che i suoi movimenti avrebbero portato a quel risultato, e in secondo luogo “desiderava” che si arrivasse a quel risultato. Né l’una né l’altra di queste condizioni è necessariamente valida. Gli esseri umani compiono degli errori, non riescono a ottenere i risultati attesi, e ottengono risultati del tutto imprevisti. Persino risultati correttamente previsti delle azioni possono non essere desiderati, ma piuttosto costi che sono disposti a sostenere per arrivare a qualche altro obiettivo.
Che il comportamento degli individui sia orientato a uno scopo implica che essi hanno in mente certi desideri e certe credenze. La semplice tendenza di un processo a produrre un risultato determinabile non è un motivo sufficiente per chiamare in causa il concetto di azione (o di scopo). Com’è noto, gli organismi biologici tendono a mantenersi in particolari stati attraverso processi omeostatici; ma sarebbe assurdo – sostengono parecchi studiosi – chiamare azioni questi processi automatici, o supporre che essi manifestino degli scopi. Lo scopo o intenzione che guida un’azione è qualcosa che caratterizza l’agente “prima e durante” l’azione, non già il risultato che egli realizza. Se attribuiamo azioni agli animali, dobbiamo supporre che siano mossi da intenzioni in qualche modo simili alle nostre, oppure usiamo il termine in un senso diverso da quello pertinente per un agente umano.
Anche se il risultato di un’azione si conformasse sempre al suo scopo, la tesi empirista non ne trarrebbe grande vantaggio, poiché un risultato voluto non è necessariamente caratterizzabile in termini puramente empirici. Supponiamo che un uomo dia (intenzionalmente) un voto segnando una croce su una scheda elettorale. La conseguenza empirica della sua azione è una croce su un foglio di carta, ma il risultato voluto, nei cui termini dev’essere caratterizzata la sua azione, è che ha votato. Un’azione e un risultato empiricamente identici non significherebbero dare un voto, senza il necessario sfondo di “regole” operative che costituiscono l’istituzione del voto. Questo esempio rappresenta di fatto un tipo di azione specificamente sociale.