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Sulla noia e su “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino: tanto rumore per nulla? Una severa critica.

Creato il 18 aprile 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
img1024-700_dettaglio2_Iran-esecuzione-sospesa-salvato-dalla-madre-della-vittima-Afp2di Rina Brundu. Non è un film che potrei amare; concedo però che può vivere a buon diritto nel limbo che separa le grandi cazzate dai momenti artistici davvero ispirati. Il mio problema è che non ho ancora deciso in quale direzione meriti di andare La Grande Bellezza (2013), il film di Paolo Sorrentino vincitore dell’Oscar 2014 come miglior film straniero. Un lavoro, questo del regista napoletano, che riporta alla mente atmosfere pasoliniane, felliniane, finanche ejzenstejniane, anche se in quest’ultimo caso la parentela è certamente lontana: più quella sentita dal figlio disconosciuto speranzoso di ritrovare paternità che quella provata dal genitore ansioso di portarsi in casa il figliolo bastardo.

Non è un film che potrei amare. Il mio problema è che non ho ancora deciso se la colonna sonora di questa produzione sia la colonna sonora dell’Italia-da-bere dura a morire in questi anni di crisi, o se sia la noia. Lo scontato, il dejà-vu che fa ripetuto occhiolino al “Paese” che è (era) pizza-cuore-mandolino e che tanto affascina gli americani (del resto, affascinarli è conditio-sine-qua-non per ottenere un Oscar, un poco come non sparlare della famiglia reale svedese per ottenere un Nobel). Ma forse l’una vale l’altra, forse le due colonne sonore si equivalgono; il fatto è che anche le metafore hanno i loro ritmi e i ritmi della macro-metafora che è La Grande Bellezza non sono né i miei né quelli dei tempi che viviamo.

Non è un film che potrei amare. Il mio problema è che non sono una fan del commitment-posticcio, dell’engagement sartriano tanto per fare, della semantica da vecchia rive-gauche distribuita con accortezza e furba parsimonia lungo tutto lo script come il sale sul minestrone della nonna. Il mio problema è che nutro una avversione viscerale verso il radicalchichismo che è intellettualismo di maniera. Nulla di strano in questo, appartengo ad altra generazione e le menti brillanti che ho incontrato e ammirato al tempo dei boom e degli sboom tecnico-digitali preferivano un approccio differente nei confronti delle cose della vita. Anche artistica. Nel frattempo cambiavano il mondo a loro immagine e somiglianza. Il mio problema è che Jep Gambardella è tutto ciò che odio in un character fictional che vuole essere anche “eroe” proppiano o improbabile eroe kerouachiano on-the-road. Di converso, su una dimensione factual, Jep Gambardella è finanche sintesi rincoglionita di tutto l’obsoleto consegnato alla Storia proprio dalle menti brillanti di cui sopra, senza troppe scuse e senza preoccuparsi di chiedere il permesso.

Non è un film che potrei amare. Il mio problema è che sogno un grande cinema italico d’altri tempi e post-moderno insieme, that’s to say substantial and drama-free. Capace cioè di nutrirsi solamente della sua corposa potenza visionaria e creativa (vs costruzione artefatta con un target in mente). Capace cioè di raccontare il mio Paese che cambia senza strizzare l’occhio ai datati clichés. Senza scadere nell’immaginario provinciale riempito di macchiette che sono immagini di santi e di santini, di preti e di cardinali, di suore grassocce che marciano per la città, di nobili decaduti e nostalgici dei tempi del cazzo che furono, di italiani sudati e nullafacenti, di artisti che “cantano” la noia della vita semplicemente perché incapaci di celebrarne la sua “bellezza”. Dato il titolo del lavoro in questione, un paradosso.

Non è un film che potrei amare. Ammetto tuttavia che il capolavoro di Claudio Sorrentino è riuscito a raccontare la grande bruttezza dei nostri tempi come poche altre produzioni. La grande bruttezza dell’Italia corrotta e svenduta, la grande bruttezza della nostra defenetrazione dai luoghi che fanno la cultura-che-conta, la grande bruttezza del nostro fallimento multi-generazionale, politico e sociale. Ma non solo.

Non è di sicuro un film che potrei amare. Fatta salva l’interpretazione di Servillo, confesso anche e senza grosse difficoltà di non avere ancora capito perché il lavoro di Sorrentino abbia vinto tutti questi premi, Oscar compreso. Intuisco però le motivazioni dello status-quo ed è per questi motivi che continuo a guardare ai tempi artistici e al genio autorale di Ivan il Terribile come verso un confine nobile e ideale che è ancora un limite. Per la cinematografia impegnata italica di sicuro, Fellini escluso.

Il resto sono dettagli e troppi fotogrammi inneggianti al disordine creativo, in balìa di una sceneggiatura modesta, che se non fossero mai esistiti nessuno ne avrebbe sentito la mancanza.

Featured image, a proposito di “grande bellezza” il gesto dello schiaffo della madre iraniana che ieri ha salvato dal patibolo l’assassino del figlio. Questo sì, un raro momento del tragico vissuto quotidiano finanche artisticamente ejzenstejniano nella sua essenza.


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