Questa violenza è un resto. Parte da noi quando le parti conciliate hanno dovuto rinunciare a qualcosa di importante. Se negato a lungo a questo resto urge il manifestarsi, perché ha potere e forza di inespresso.
Quando si accondiscende ad uno stato di cose retto dalla cattiva coscienza ( qui la dimensione morale è una copertura del proprio rendiconto pulsionale ), e tutto l’investimento esistenziale entra in questa sfera, la violenza viene estromessa dal computo affettivo come una cattiva figlia e disconosciuta. Se questo tipo di mondo mantiene comunque la propria costruzione equivoca, doppia, quella a cui i fatti reali ( le ricadute del sistema che coopta) non corrispondono al comportamento richiesto ( l’intreccio dei valori di convivenza) è possibile che, essendo tale costruzione strutturalmente coerente e contenitiva, alla violenza sottratta non venga dato modo di esprimersi.
Ma il mantenimento di uno stato di cattiva coscienza è precario perché richiede energie smisurate: doppio linguaggio, doppio legame, valori indiscutibili su cui poggiare gli sforzi non premiati e fede, direi fede. Come il patto di stabilità tra sistemi non compatibili s’infrange la violenza ferma e muta si muove e parla. Dice quello che vuole, non ha nessun criterio, nessun giudizio e nessuna vergogna: è un resto, e come tutti gli scarti poco le cale di significare qualcosa. Urge.
Ovviamente una volta espressa non porta a nulla, se ne incassa solo il dolore, e forse una strana maligna compiutezza.