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Sono contento di aver superato la mia solita pigrizia nell’uscire dalle letture abituali. Confesso che, se non fosse stato di Giorgio Boatti, a cui mi legano, oltre a una generica stima, la conoscenza di Monica e una breve rassegna di incroci frettolosi sulla porta di Echo, forse non l’avrei letto. Non per altro: avevo semplicemente una pila così di roba da leggere, prima. Romanzi, racconti, fumetti. Poi però una sera ho cominciato a leggere e ci sono un po’ cascato dentro.
Perché Sulle strade del silenzio è un libro strano che lascia addosso molte cose, poco definibili. Polvere di calcinaccio caduti sul cappotto, briciole in fondo alla borsa, erba sul fondo dei pantaloni. Tracce, segni che sai di avere addosso ma ora devi camminare mica puoi fermarti a guardare bene.
È un racconto di viaggio per l’Italia in cui il paesaggio, pur mostrando colline e scorci, è tutto interiore. Un reportage autobiografico su un sentimento di irrequietezza, di mancanza di significati, mai indagato.
Giorgio Boatti non parla di quello che gli succede dentro, ma di quello che vede e ascolta in preda al proprio spaesamento, esplorando le vite che abitano i monasteri italiani, le vicende di persone che non vediamo e non sentiamo, che immaginiamo, se non proprio fuori dal mondo, sicuramente un po’ fuori asse. La cui solitudine attrae quando vorremmo prenderci una vacanza da noi stessi, equivocando. La cui scelta appare intrisa di una vaga misantropia.
Oltre a restituircene un’immagine non stereotipata, Giorgio riesce a rovesciare la prospettiva secondo cui è il nostro tipo di vita, quello vero, quello coraggioso, che non fugge e si carica di affanni. I monasteri non sono insomma luoghi di pace, di vacanza dal mondo, ma di ricerca – certo, più o meno serena o pacificata, ma pur sempre in divenire – che rispondono a un diverso bisogno di verità. Una verità che vorremmo tutti e una necessità che probabilmente non occorre essere credenti per capire. Quanto questa scelta sia alternativa, e in cosa consista esattamente, credo che sia il mistero non svelato attorno a cui girano le domande dell’autore.
Ai percorsi di vita che Boatti incontra lungo la penisola si contrappunta, sottotraccia, la riflessione dell’autore. Mai scontata, sempre lontana dalla tentazione dell’autobiografismo non richiesto, stimolata più dagli incontri e dalle situazioni, dai paesaggi nitidi lungo le statali e tra le montagne in cui è facile perdersi, che non dal bisogno di farci partecipi di un suo rovello. I suoi dubbi, le sue esitazioni, le domande che si pone hanno invece il grande pregio di avvicinarci alla materia, permettendoci di seguire anche nostri percorsi di riflessione dentro i suoi, di attingere alla sua meraviglia per trovarci qualcosa di nostro.
Non si resta fuori, per nulla, anzi ci si perde volentieri nelle anse dei fiumi che ci dipinge. Si perde un poco il senso del tempo – esattamente come il viaggiatore Giorgio si perde apposta per le campagne. Un momento di ripiegamento che a me è risultato semplice e leggero, lasciando tutta una serie di sensazioni addosso che impiegherò un bel po’ a leggere, fuori dalle pagine e dentro i miei paesaggi.
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