Perché girare l'Italia di monastero in monastero, se non sei alle prese con un naufragio esistenziale o non ti trovi nel bel mezzo di una crisi mistica? Perché bussare a quelle porte, in cerca di ospitalità e raccoglimento, se non stai maneggiando l'ipotesi di diventare anche tu monaco?
Eppure è proprio questo che ha fatto per un anno intero Giorgio Boatti, scrittore e giornalista che in altri libri si è occupato della strage di Piazza Fontana, del terremoto di Messina oppure dei professori che ebbero il coraggio e la dignità di sottrarsi al giuramento di fedeltà a Mussolini. Ha girato da un capo all'altro di Italia, mangiando nei refettori, ascoltando le varie liturgie delle ore, smarrendosi con i propri pensieri nei chiostri e negli orti dei monaci.
Poi ha raccontato tutto questo in Sulle strade del silenzio (Laterza), un libro avvincente, che mi ha regalato uno dei più singolari e affascinanti viaggi di cui abbia mai letto. Un viaggio non in altre latitudini, ma in un altro tempo, verrebbe da dire, non fosse che molte di queste esperienze sono ben piantate anche nella nostra epoca. Non fosse che attraverso queste isole di pace e bellezza si snoda, per contrasto, anche il racconto di questa nostra Italia.
Perché la risposta alla domanda iniziale forse sta proprio qui: in quel senso di spaesamento rispetto a un'Italia cambiata in fretta e male; in quel bisogno di ritrovare altri ritmi, altri gesti, altre profondità.
E' questo che ha fatto Boatti, scommettendo sul silenzio, sull'ascolto, sull'interiorità. Al termine del libro non ho nemmeno capito se è credente e di quale tipo. Però ha ragione lui: si può vivere l'esperienza dei monaci anche senza esserlo. Puntando semplicemente alla sottrazione di ciò che non è essenziale per la nostra vita.