di Rina Brundu. Certa di fare cosa gradita ai tanti frequentatori del sito che da tempo leggono i suoi articoli trattanti tematiche filosofiche e di attualità politica e sociale, propongo qui di seguito alcune domande che ho voluto fare a Michele Marsonet in materia di filosofia, università e scambi culturali con l’estero; ad un tempo profitto per ringraziarlo della sua estrema disponibilità e cordialità, per i numerosi contributi testé citati e per questo bel regalo natalizio. A titolo di prefazione all’articolo, recupero alcune sue note biografiche dal volume La verità fallibile di Michele Marsonet, Ipazia Books, Dublin, MMXIV:———————–
Michele Marsonet – Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova e in Filosofia della scienza all’Università di Pittsburgh (USA). Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di Visiting Fellow presso le Università di Oxford e Manchester (UK), e CUNY di New York. Attualmente Professore ordinario di Filosofia della scienza e di Metodologia delle scienze umane nel Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia dell’Università di Genova. Sempre all’Università di Genova è stato Coordinatore del Dottorato di Filosofia, Direttore del Dipartimento di Filosofia e Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. È stato stato Pro-Rettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova dal 2008 al 31 ottobre 2014 ed è Preside della Scuola di Scienze Umanistiche dell’Università di Genova. Fellow del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh, è stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri: City University of New York, Pittsburgh e Catholic University of America (USA), Melbourne (Australia), Oxford, London Queen’s College, Leeds, Manchester, Hertfordshire, Middlesex, St Andrews e Southampton (UK), Cork (Irlanda), Bergen (Norvegia), Siviglia e Malaga (Spagna), Friburgo (Svizzera), Beirut (Libano), Lovanio (Belgio), Malta, Reykjavik (Islanda), Giessen (Germania), Varsavia e Cracovia (Polonia), Cluj (Romania). Professore Onorario della Universidad Ricardo Palma di Lima, nel 2009 ha ricevuto la Laurea Honoris Causa in Filosofia dalla Universidad Continental di Huancayo (Perù). È autore di 28 volumi e curatele, di cui 5 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti e Gran Bretagna, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in italiano e inglese su riviste scientifiche italiane e straniere.
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Il professor Massimo Pittau nel suo saggio “Parlando di Filosofia, o della preparazione e dell’esperienza filosofica” ha scritto: “In generale dico che questa mia larga e lunga esperienza è stata sostanzialmente positiva (nda: la sua esperienza nell’ambito dell’insegnamento) rispetto ai professori di lingue e letterature, antiche e moderne, di filologia, di glottologia e di storia, mentre è stata sostanzialmente negativa rispetto ai professori di filosofia. Io non ho avuto l’occasione né la fortuna di conoscere un solo professore di filosofia al quale mi sentirei di attribuire il titolo di “filosofo”, cioè di pensatore che approfondisce e amplifica il sapere filosofico che hanno già conseguito i filosofi a lui precedenti, di pensatore originale che lascia qualche sua traccia, anche piccola, nella storia della filosofia. Nella totalità dei casi i docenti di filosofia che ho conosciuto e frequentato si limitavano a ripetere continuamente ed esclusivamente le dottrine e le tesi dei veri “filosofi” o “pensatori” precedenti….”. È d’accordo con questa visione critica? E cosa significa per lei fare filosofia oggidì, posto che un simile statement abbia ancora un senso?
Forse il prof. Pittau è stato sfortunato, almeno nell’ambito della filosofia. A me invece è capitato di incontrare, sia in Italia sia all’estero, filosofi eccellenti che hanno enunciato tesi originali e destinate a entrare nei manuali. Ciò tanto come studente (in particolare negli Stati Uniti) quanto come docente e collega in occasione di convegni internazionali e di corsi da me tenuti in altri Paesi. Ho avuto per esempio la fortuna di seguire a Pittsburgh le lezioni di Wilfrid Sellars. Il suo saggio “Empiricism and the Philosophy of Mind” (ma non solo quello) è diventato una pietra miliare nella filosofia della mente, nella filosofia della scienza e nell’epistemologia. Poi Willard V. Quine, un classico del pensiero del ‘900, che venne a parlare della relatività ontologica. Con Nicholas Rescher ho spesso discusso del suo pragmatismo metodologico, interessante mix di pragmatismo e idealismo. Senza dimenticare Adolf Grunbaum, autore della più completa analisi epistemologica della psicoanalisi di Freud. La filosofia è un’impresa millenaria che non finisce mai, proprio come la scienza. E anche i pensatori più originali hanno sempre alle spalle un ricco background, una serie infinita di altri autori che in parte accolgono e in parte criticano proponendone il superamento. Qualcuno ha detto che l’intera filosofia occidentale è composta da note a Platone. In realtà neppure Platone inventò dal nulla, per capirlo occorre leggere i presocratici. E questi ultimi, a loro volta, si basavano su testi di filosofia orientale che oggi sono in buona parte perduti. Ogni tanto qualcuno s’illude di mettere la parola “fine” alla filosofia pensando di aver risolto tutti i problemi. Lo credette, ma per un tempo piuttosto breve, Ludwig Wittgenstein, salvo poi accorgersi che non era vero. Problemi nuovi sorgono sempre, e il metodo per affrontarli cambia con il trascorrere del tempo. Bisogna sempre rammentare i nostri limiti cognitivi rendendosi conto che non riusciremo mai sapere “tutto” (anche se in linea di principio, a livello puramente teorico, è possibile). Oggi la filosofia deve confrontarsi in modo sistematico con la scienza, con l’arte, con la religione e altri campi dell’attività intellettuale umana. In fondo lo ha sempre fatto, ma nella nostra epoca il confronto dev’essere ancora più stringente. Senza scordare che sono spesso scienziati, tecnologi, medici e artisti ad avvertire la necessità di confrontarsi con la filosofia. Cito due esempi: l’Intelligenza Artificiale e la bioetica. Qui il dialogo tra filosofi e ingegneri nel primo caso, e tra filosofi e medici nel secondo, è costante e assai fruttuoso.
Due dei pensatori contemporanei più trendy e paparazzati sono Gianni Vattimo e il francese Bernard-Henri Lévy (BHL), già leader del movimento Nouveaux Philosophes: secondo lei, quali sono, se ci sono, gli input più significativi dati all’intellettualità post-digitale da questi suoi colleghi? E qual è il valore sul piano del reale, sociale, di quegli stessi input?
Il fatto di essere trendy e paparazzati non è per niente una garanzia, direi il contrario. Circa Bernard-Henry Lévy non ho molto da dire. Già ai tempi dei Nouveaux Philosophes non si distingueva per originalità, era – ed è tuttora – abilissimo nel farsi notare e intervistare da tv e rotocalchi. Del resto non produce lavori filosofici da moltissimo tempo. Non lo accomunerei però a Gianni Vattimo. È stato uno dei principali esponenti del pensiero post-moderno e, non a caso, è celebre anche all’estero. A me non piace il pensiero post-moderno, ma in filosofia non si deve (anche se molti lo fanno) svalutare qualcuno perché non si concorda con le sue tesi. Io ho una formazione analitica, amo Wittgenstein e non Heidegger. Ma non mi sognerei mai di dire che quest’ultimo non è un pensatore importante. Insomma, non bisogna farsi dominare dalle preferenze personali o di corrente.
Vado direttamente al punto e mi ricollego alla prima domanda: che senso ha studiare Filosofia in una società costretta a privilegiare il tornaconto utilitaristico e dunque tecnico? Pensi, per esempio, alla proposta di fare della Programmazione informatica materia obbligatoria negli istituti scolastici, proposta che io trovo molto sensata….
Ha senso proprio per questo. In una società “costretta” a privilegiare il tornaconto utilitaristico e dunque tecnico, v’è più che mai bisogno di incoraggiare lo spirito critico e l’apertura mentale. Ciò ovviamente presuppone che gli insegnanti ne siano provvisti e, purtroppo, talvolta non è così. In alcune nazioni dove la filosofia non è insegnata nelle scuole secondarie ora si sta provvedendo a inserirla, per esempio nell’Europa del Nord e negli stessi Stati Uniti. È un fatto molto significativo. Comunque non vedo alcun conflitto tra filosofia e programmazione informatica, convivono benissimo. Solo i politici italiani stentano a capirlo.
Parliamo di Università. Non passa giorno in cui non si legga di un qualche scandalo legato alle nostre migliori università, sovente sono scandali procurati dalle pratiche nepotistiche tradizionalmente portate avanti negli atenei italiani; di fatto le università sembrerebbero avere perso la loro funzione di luoghi di formazione intellettuale et non per antonomasia, come si spiega questo lento declino, anche e soprattutto etico e quali le speranze per il futuro?
Purtroppo non è un problema che riguarda solo i nostri atenei. Un paio di scandali gravi hanno toccato persino l’università di Harvard. Tuttavia è vero che l’università dei nostri giorni – anche all’estero – ha smarrito il significato classico di “universitas”, intesa come comunità di docenti e studenti accomunati dall’amore per il sapere. Sta assumendo una rilevanza sempre maggiore la componente burocratica, e i docenti passano parecchio del loro tempo a riempire moduli e a rispondere a stranissimi quesiti posti dal ministero. Dovrebbero invece insegnare e, soprattutto, fare ricerca scientifica. Con la legge Gelmini questo processo è arrivato all’acme, segno evidente del predominio della politica (e dei sindacati) anche in ambito universitario.
Lei viaggia spesso in Cina e in altri paesi orientali per incontrare colleghi e studenti dei maggiori atenei di quei paesi; qual é la corrente percezione dell’Italia e degli italiani in queste nazioni lontane e quali sono i risultati concreti che dovrebbero portare questi continuati scambi culturali? Può portare un esempio pratico di un valore aggiunto creato?
Anche se qui si stenta a crederlo, la percezione del nostro Paese all’estero è tutto sommato positiva. L’italiano è la quarta lingua più studiata nel mondo, pur non essendo parlata al di fuori dei nostri confini. Lo dobbiamo alla nostra grande tradizione letteraria e umanistica in genere, e al permanente fascino del made in Italy all’estero (il design italiano è tuttora popolarissimo). Anche la tradizione culinaria ha un peso rilevante. A Pechino, ma pure a Baku e Hanoi, sono più frequenti i ristoranti italiani di quelli francesi o spagnoli. Gli scambi culturali con l’estero rappresentano il metodo migliore per sprovincializzare la nostra cultura. Il programma Erasmus ha fornito agli studenti un’opportunità unica per entrare in contatto con gli stranieri a casa loro, e a questi ultimi di vedere realmente l’Italia e non solo di sentirne parlare. Con tutti i Paesi gli scambi, soprattutto per docenti e dottorandi, rappresentano l’occasione di elaborare progetti di ricerca comuni, sviluppati sul piano multinazionale. Mettendo in comune capacità e competenze un progetto di ricerca ha molte più probabilità di giungere a risultati positivi. La Cina sta incoraggiando dei docenti italiani a insegnare nelle università cinesi per periodi anche lunghi. Nascono inoltre reti di ricerca con Paesi che ci considerano partner naturali, per esempio la Federazione russa, alcune Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e l’intera America Latina. Il valore aggiunto, per noi e per loro, è evidente. L’ostacolo maggiore, per quanto ci riguarda, è posto dal mondo politico. I nostri governi, di qualsiasi colore, continuano con i tagli lineari all’istruzione e alla ricerca. Altrove, per esempio in Germania, Francia e Olanda, si procede esattamente in direzione contraria. Temo che tra pochi anni l’Italia, e il suo sistema Paese, ne risentiranno in modo drammatico.
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