Tra i diversi motivi d’incanto dell’ultima edizione di Sulmonacinema vi è stato anche, a nostro avviso, il film scelto per la serata di chiusura del festival, ovvero Venezia salva di Serena Nono. L’inserimento nel programma di tale proiezione rivela una circostanza particolare, trattandosi dell’omaggio al presidente di giuria David Riondino, che oltre a recitare nel film ha contribuito concretamente, tramite la Giano Produzioni (supportata per l’occasione da Rai Cinema e dalla Regione Veneto Filmcommission), alla sua realizzazione. Un omaggio, questo, che il buon Riondino ha saputo meritarsi anche sul campo, anzi, sul palco: la sua ironica e dissacrante rivisitazione dei canti degli Alpini, durante la cerimonia di chiusura, ci ha fatto ridere veramente di gusto. Senza contare che il riso suscitato nel pubblico del Nuovo Cinema Pacifico aveva qualcosa di catartico, liberatorio, in quanto contrapposto alla retorica patriottarda trita e ritrita che è possibile riscontrare in determinate tradizioni.
Ma non è per parlare del pur valente David Riondino, le cui qualità di improvvisatore, interprete musicale e uomo di spettacolo a tutto campo sono ben note, che abbiamo iniziato il discorso. Torniamo pertanto a Venezia salva e alla lieta sorpresa che ha rappresentato per noi. Ne è autrice un’artista veneziana, Serena Nono, già nota come pittrice ma evidentemente tesa a contaminare differenti esperienze espressive e di vita. Lo dimostra anche il fatto che per questo suo lungometraggio d’esordio si sia rivolta tanto ad attori professionisti (citavamo prima Riondino) che agli ospiti della Casa dell’Ospitalità di Venezia e Mestre, che accoglie persone temporaneamente senza dimora dalla provenienza più disparata. Il risultato di questo “melting pot” attoriale è una recitazione sublimata, straniante, vagamente atemporale e “ageografica”, ideale quindi per problematizzare (e attualizzare) i temi etici proposti dal film.
Il film, per inciso, si ispira liberamente a una tragedia di Simone Weil, composta a sua volta sulla falsariga di un controverso fatto storico: la congiura con cui la corona spagnola e altre potenze europee ostili alla Serenissima, nel 1618, avrebbero attentato alla libertà di Venezia pianificando un sacco della città lagunare le cui conseguenze sarebbero state spaventose, devastanti, crudeli. Una crudeltà che si abbatté invece sui congiurati stessi, allorché l’aristocrazia della repubblica marinara venne a scoprire e a sventare, per tempo, il tentativo di golpe. Tutto ciò, così almeno si suppone nel corso della tragedia, grazie alla crisi di coscienza e al conseguente tradimento di uno dei congiurati.
Ad averci deliziato è il modo in cui la Nono ha scelto di rappresentare tali accadimenti. Alla recitazione abbiamo già accennato: frasi pronunciate con cadenze inusuali, elemento su cui forse Jean-Marie Straub e Danièle Huillet avrebbero insistito persino di più, risultano inserite in quadretti che per la natura dei dialoghi e la composizione dell’inquadratura possono far pensare a De Oliveira. Le scene girate in esterni sembrano far andare indietro l’orologio dei canali e delle calli di qualche secolo. Mentre gli interni, specie in quei riquadri notturni all’inizio della congiura, acquistano una consistenza quasi pittorica. Il fascino che ne deriva, accentuato dal buon lavoro sui costumi, fa di Venezia salva un film in cui l’elegante sobrietà della cornice e la ponderosità dei temi trattati, inerenti tanto alla complessità del divenire storico che al peso delle responsabilità individuali, vivono in perfetta simbiosi.
Stefano Coccia