15 Luglio 2013
L’evacuazione della Safety Zone n. 013 è iniziata alle due del mattino del giorno 27 Aprile 2013.
È stata veloce, silenziosa ed efficiente. Mentre tutto intorno, fuori del complesso di ville, il crepitio dei mitra si sovrapponeva, secco e ritmico, al brontolio di un temporale in arrivo. Cadeva già qualche goccia.
Mi sembra di sentire ancora la mano di Zooey che stringeva la mia fino a farla diventare esangue. Avrà pronunciato “Oh, God! Oh, no!”, almeno una trentina di volte, mentre aspettavamo il nostro turno. Erica e il suo medico erano proprio dietro di noi.
Cameron non ha perso tempo. Mentre Londra cadeva, inghiottita dalla merda gialla, ha mobilitato l’esercito e ha autorizzato l’impiego di forza letale.
Dicono che gli scontri, ad Aprile, non siano neanche stati causati dai gialli, nella loro totalità.
Gli infetti sono sbucati fuori dalla nostra vita, dalle nostre famiglie, sempre più numerosi e voraci; il piano di contenimento e rastrellamento casa per casa, in vigore fino a quel momento, ha mostrato in pochissimi giorni la sua inefficacia. Hanno dovuto costituire un fronte.
Ai gialli furibondi, nel corso delle ultime settimane si sono aggiunti i disperati.
Tutti coloro che, tagliati fuori dalla Nuova Inghilterra, hanno deciso di farsi ammazzare abbandonandosi a saccheggi, stupri e ogni altro genere di violenza. O hanno deciso di andare per la propria strada, sottraendosi ai controlli, cosa che, dicono, non sia molto gradita al governo. Il controllo della popolazione resta l’alternativa più prudente al dilagare della Pandemia. Richard e Jane sono fra i fuggitivi. Lei è infetta.
Fila ordinata in attesa di salire sugli autobus militari. Un’ora di preavviso, in quanto privilegiati, per preparare i bagagli. Una valigia a testa. Scortati da soldati che imbracciavano fucili d’assalto e indossavano elmetti in kevlar muniti di visori notturni. Non una protesta, non un commento fuori posto, nell’attesa del proprio turno. Zooey continuava a mordersi il labbro inferiore.
Il campo è poco a sud di Canterbury, dove si stendevano terreni agricoli ora espropriati. È circondato da una doppia recinzione metallica alta quattro metri, intervallata da torrette di guardia. Settori adibiti ai civili si alternano a installazioni militari. La maggior parte dei residenti, circa tremila persone, un terzo delle quali soldati, sono alloggiate in tendoni, con cessi chimici sistemati nei paraggi. I possessori della tessera nera occupano piccole case prefabbricate, oppure roulotte.
Ho trascorso le prime due settimane in uno di questi tendoni. Tessera Arancio. E io e Zooey non siamo sposati.
Accanto a me un giovane docente di filosofia. Venticinque anni, loquace. Mai una parola sui gialli. Il resto dell’Europa sta morendo insieme al mondo, che possiamo fare noi con due stronzate dette di traverso? Abbiamo parlato di donne e del Manchester United. La squadra non ha più disputato un match di Champions League da due anni a questa parte. Tutto sommato, è andata di lusso. Altre famose società non esistono neanche più. Inconvenienti della pandemia, tra i tanti. Abbiamo bevuto Diet Coke, sognando che fosse birra, e fumato tante sigarette quante siamo riusciti a comprarne.
Sulla mia sinistra, ci sono due brandine vuote.
Qualcuno che non ha fatto in tempo a prendere l’autobus.
Non tutti i soldati hanno mai visto un contagiato dal vivo. Così, in tende adibite, vengono impostati collegamenti video con le unità di pattuglia lungo la M4, la superstrada che, insieme al Tamigi, ora segna il confine meridionale della Zona Infetta di Londra. Un istruttore spiega alle reclute la capacità offensiva e i tempi di reazione dei gialli man mano che scorrono le immagini. A volte in diretta, quando la situazione è tranquilla. Possono assistervi anche i civili.
Ai lati e a nord di Londra, l’esercito inglese ha eretto il limite di contenimento.
I gialli dividono la loro parte di città con i superstiti che non sono stati evacuati.
I loro nomi, ricavati per esclusione dai registri dell’anagrafe, sono già stati pronunciati nelle cerimonie funebri trasmesse in tv, che siano morti o meno. Impossibile verificare.
Sullo schermo ho visto il Tower Bridge, aperto. I soldati piazzati lungo gli argini meridionali. Gli infetti in acqua, a lottare contro la corrente e coi loro stessi movimenti impazziti pur di raggiungere quelle che vedono come prede. Alcuni sferzavano l’acqua con le mani, altri sembravano volerla mordere. Altri ancora, fissavano, in quello che è stato definito momento di coscienza, i cecchini dritto negli occhi. C’era un giallo robusto, sulla cinquantina. Capelli radi, tagliati corti e occhi chiari. La sua calotta cranica s’è aperta come un carillon. Il resto se l’è portato via il Tamigi in una scia rossatra persa nell’acqua fangosa. Le reclute nella tenda hanno esultato come a una partita di calcio.
La tensione elettrica oscilla. Sta per suonare l’allarme del campo.
Zooey trattiene il fiato e mi fissa. Stava ascoltando un po’ di musica, e leggendo un libro sgualcito. Una cosa di Salinger. Deve a lui il suo nome. Lo posa, aperto, sulle gambe. Indossa una gonna corta di velluto, calze blu e un maglioncino di lana azzurro. Le sue mani hanno cominciato di nuovo a tremare.
Mi dice che stamattina ha fatto visita a Erica. Lo fa con voce neutra, senza incertezze. “She’s sick”. Nessuna conferma ufficiale, ma neanche smentite.
Aggiunge che anche lei deve essere sottoposta alle analisi del caso. Routine.
Va via la luce.
Resto a fissare il riflesso delle sue pupille. Ascoltiamo i rumori di fondo.
Fuori, i soldati si stanno muovendo veloci. Di solito, i gialli che arrivano fino al campo sono pochi.
***
23 Marzo 2014
La mano è stata inchiodata alla porta d’ingresso con un coltello ficcato nel palmo. È scarnificata e secca. Mi ricorda un batacchio. Impossibile stabilirne l’esatto colore alla luce della torcia.
Le finestre sono sbarrate dall’esterno con assi di legno, come la porta.
L’ultimo quarto di luna ci aiuta a dissipare l’ansia. La sua luce illumina le vie della cittadina. Il silenzio che le copre ce lo conferma. La città è abbandonata. È anche il nostro approdo.
Quelli che sembrano mucchietti di rifiuti nerastri, tra detriti e tessuto logoro, in strada, sono resti umani. Ne conto almeno sette. A distanze diverse.
Qui intorno la festa è finita da un pezzo. Tutta la costa, vista dal mare, è al buio.
Siamo tra i circa venticinquemila profughi, secondo le stime che girano in internet su siti che vengono oscurati e riaperti di continuo, che sono andati a morire prendendo il mare, o che si sono salvati. C’è discordia, su quest’ultimo punto. Come su questo posto.
Qualls, il traghettatore, mi ricorda che oggi è la terza domenica di Quaresima, come se me ne fregasse qualcosa; mentre io gli guardo le spalle, lui punta il fascio di luce dentro una crepa nella serranda del garage attaccato alla villa.
Qualcosa ha tentato di uscire, pur restando intrappolata: ha piegato la porta in lamiera, che ora è convessa all’esterno. Quanta forza possono avere questi figli di puttana?
Esulta, se si può esultare sottovoce.
Dentro ha visto un Active Hybrid BMW. È nero. Sembra in ottimo stato, al contrario delle carcasse abbandonate in strada, ferme lì dov’è finita la benzina o dove sono stati ammazzati i proprietari. Alcune hanno le portiere ancora spalancate.
Una l’abbiamo scorta sott’acqua mentre ci avvicinavamo al molo, grazie ai faretti di prua dell’imbarcazione. La targa si leggeva ancora.
Impreca. Non c’è modo di forzare la porta del garage. Dobbiamo passare dall’interno, dice. Fanculo.
Ci riportiamo sul davanti, alla porta con la mano inchiodata.
Qualls lavora sulle assi con un piede di porco. Si fa venire il fiatone. Non è blindata, almeno, ma sembra robusta.
Ho tagliato le canne alla doppietta. Adesso, quando sparo, il colpo di sente a un chilometro… Sorrido. Poi sparo sui cardini i primi due colpi, a distanza ravvicinata, voltando il capo e serrando le palpebre. Il terzo sulla serratura.
Sfondiamo.
C’è solo odore di chiuso. Che contrasta con ciò che vedo.
La torcia illumina una strisciata abbondante e scura che impregna la moquette color crema. Sul pavimento del corridoio e sulla rampa di scale. È rappresa da un secolo, o giù di lì.
Attraverso veloce il corridoio fino alla stanza sulla destra, una cucina. Un piede è accartocciato sotto il tavolo. Una bambola che sorride è stata gettata nel lavabo. Sul muro altri schizzi, questa volta sottili. Mi vengono i brividi. Per terra c’è la ciotola gialla di un cane, Teddy, scritto in lettere blu, caratteri rotondi.
Teddy non c’è.
C’è, invece, una donna in un’altra stanza, tra il divano e il tavolino. È incartapecorita. Culo per terra, schiena sul bordo di pelle soffice, marrone, capo reclinato sul petto; indossa jeans chiari e maglietta viola. È bionda. I capelli le sono cresciuti fino a terra. Una mano mangiucchiata in grembo, la propria, le ossa in vista almeno su tre falangi e parte del polso. Due dita dell’altra mano, la sinistra, stringono un tablet impolverato. Lo prendo.
Mentre Qualls se ne va in garage bestemmiando, al piano di sopra trovo la camera in carta da parati rosa di una bambina. Sul suo letto c’è il corpo riverso di un uomo adulto, secco e marrone. La scia che arriva dalle scale porta in questa stanza, a quella cosa che sporge sotto di lui. Scorgo una manina.
Trovo il trasformatore del tablet. Poi esco. E vomito.
Abbiamo tre auto. Un SUV, un fuoristrada e una station wagon. Il caricabatterie attaccato al generatore della barca, l’acqua distillata e l’avviatore fornito dai fratelli Qualls, hanno fatto il resto.
Ho ricaricato anche il tablet. S’è acceso. Sopra c’è l’ultimo sistema operativo della ***.
Riesco a collegarmi a internet.
Mi offrono di cambiarlo con un fucile.
Niente da fare. Lo passo a lei, che subito fa un tour virtuale delle località limitrofe. Le piacerebbe visitare la capitale, un giorno.
Magari ci andremo, fra quattro o cinque anni.
Dicono che ci converrebbe seguirli. Vanno verso nord, a ***. Un loro contatto via mail ha assicurato che lì c’è ancora una grossa comunità. Fanno persino la birra, quella scura e saporita.
Lì si può ricominciare, sostengono.
Deciderò domattina. Intanto, mi assicuro il fuoristrada. Costa il mio fucile a canne mozze.
***
22 Gennaio 2016
Ho almeno tre costole incrinate. Dubito siano rotte. In quel caso, credo che il dolore sarebbe più intenso. Ma chi può dirlo?
Tossire è un’agonia.
Anche ridere lo è.
E lei cerca di farmi ridere spesso.
No, non è sadica. È l’angoscia che ha provato, per troppo tempo. A causa mia.
Me lo merito un po’ di dolore, specie se agrodolce.
Sono certo di non avere un polmone perforato. Perché sto qui a scrivervi e non ho mai sputato sangue in tutto questo tempo.
Sono rimasto privo di sensi per due giorni. Mi ha raccolto a venti metri dal rifugio, che ormai era notte. Avevo con me solo il fucile, la dinamo, e il tablet, nella tasca interna della giacca. È quasi morta di paura. Questo accadeva dieci giorni fa. È stata sul punto di sparare all’apparecchio per la rabbia. Grazie al cielo non l’ha fatto.
S’è accorta che ero lì grazie a Franny, il cucciolo. Stanno bene entrambi. Che nome del cazzo, però.
Ha dovuto farmi una fasciatura improvvisata. Il materiale l’ha ricavato da alcune magliette prese a sforbiciate.
Alla fine l’ho tolta. Peggiorava le cose.
Ho anche il naso rotto e il viso tumefatto.
Non tornerà perfetto, ma il gonfiore passerà. La pelle, da grigia diventerà giallognola, come è normale. Ma gliel’ho comunque ricordato.
Sperando che non decida di spararmi lo stesso.
A giudicare da come si è stretta a me l’altra notte, facendomi male, direi che non succederà. Mi ha chiesto anche scusa.
Le ho accarezzato il pancione, ma non ho sentito niente, sotto la mano. Dice che ogni tanto succede.
Manca ancora un po’. Non tantissimo.
È preoccupata quanto me, ma si sforza di sorridermi. Arriccia il naso. Comincia a spuntarle qualche capello bianco.
Un po’ di prove con lo zaino. Non riesco ancora a indossarlo. Dovrò sistemare tutto su un letto di rami annodati e trascinarlo a spalla. Lei porterà il minimo indispensabile. Non deve affaticarsi.
L’ho convinta a restare a casa a preparare i bagagli. Non voleva sentire ragioni. Abbiamo litigato.
Ho ucciso una lepre bianca, coi pallini, nei pressi di una tana. Il rinculo del sovrapposto, per quanto ammortizzato dal calcio, mi ha causato brevi fitte al volto e al fianco.
Oltre il fucile, le cartucce e la borraccia con dentro tè alla pesca solubile, ho portato anche un flacone di alcool denaturato e qualche fiammifero.
Sono tornato da Carla.
L’ho trovata ancora lì, ormai congelata. Nei pressi c’era l’altro, col coltello infilato nel fianco.
Una volpe deve aver banchettato con lui, a giudicare dai rimasugli solidi di budella sparpagliate tutt’intorno e dallo squarcio nell’addome.
La stessa volpe che ha frugato nel mio zaino, lasciato nella tenda aperta e forata dai pallettoni. La neve c’è finita dentro, insieme alle sue piccole impronte. Se ne vedono anche fuori, in percorsi dubbiosi, ma non sembrano freschissime.
Le volpi contraggono la stregoneria? Alcuni folli, in rete, sostengono di sì.
Lascio perdere l’idea di dar fuoco al corpo dell’uomo. Troppo indurito dal gelo. E non ce la faccio a sbarazzarmene in qualche altro modo.
Ma per Carla devo comunque sforzarmi. Mi ha servito bene.
Le sistemo la lepre accanto, nella piccola fossa dove l’ho trovata notti fa.
Le lepri, per certe streghe, sono come i gatti. Sono i loro famigli. Starà in compagnia, dovunque l’abbia spedita.
La ricopro di fronde, piccole pietre e altra neve, promettendomi che, una volta ristabilitomi, tornerò da lei, per finire il lavoro. Ci impiego due ore. Un’altra, intera, per riprendermi dalla fatica e dal dolore al torace, mentre mi domando cosa sia successo, davvero, quella notte.
L’albero morto, intanto, le farà da custode.
Siamo tornati al villaggio, con l’intenzione di restare. Mi sono sbarazzato della testa del cervo, prima che lei la vedesse. Resta, oltre al prete putrefatto, la strega legata al letto e suo marito suicida. Non voglio che veda nulla di tutto questo. Sono indeciso se dar fuoco alle loro case. Per il momento, mi limito a mantenerle chiuse.
Abbiamo scelto un appartamento con l’ingresso ad arco. Ha un piccolo camino, e una cantina spaziosa.
Ha nevicato ancora. Ma non è un problema. Ci sono parecchie provviste nelle altre case. Andiamo a prenderle quasi tutti i giorni, col fuoristrada.
Ho anche trovato una fotocamera e delle batterie stilo con un residuo di carica.
Lei ha scattato la foto qui a lato, dall’interno dell’abitacolo. È il cimitero dietro la casa del cacciatore. Sembrano cani da slitta. Il ché è assurdo. Come parecchie altre cose.
Spero siano solo di passaggio. Non sembrano pericolosi. È bastato un colpo di fucile in aria per disperderli.
I pochi abitanti scomparsi dopo la visita di Carla non sono tornati. Non credo ci sia nessun altro. Sano o infetto. È probabile che sia così per decine di chilometri, in ogni direzione.
È il giorno Ventidue Gennaio dell’Anno del Signore 2016.
Siamo soli.
fine nono episodio
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