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Summertime

Creato il 05 agosto 2013 da Thefreak @TheFreak_ITA
Summertime

Gironzolava per casa con passo frenetico e snervante. Raccoglieva gli ultimi oggetti utili per partire con le sue amiche. Direzione Taormina. Quella di mia madre sarebbe stata un’estate da urlo, mentre io sarei rimasta a casa, in dolce compagnia del volume di Microbiologia e con lo spettro del professore che ogni tanto si affacciava tra le pagine del libro.

Terribili apparizioni.

-        Mirella e Clarissa sono appena arrivate, in frigo c’è tutto quello che ti serve per sopravvivere in questi giorni. I soldi, se ti servono, sono al solito posto, dentro il terzo cassetto dell’armadio nella mia camera. Mi raccomando, ricordati di spegnere il gas prima di andare a dormire e di lasciare una luce accesa di notte, non si sa mai. Linda.. Linda mi ascolti?

-   Sisi

-   Che ho detto?

-   …Non si sa mai…

Eccola lì. La faccia interdetta di mia madre, che probabilmente amava di più la lista delle raccomandazioni da farmi prima di uscire di casa, piuttosto che trascorrere un’intera settimana di sole e mare in compagnia della sue amiche svampite.

-   Sarà un miracolo se al mio ritorno non troverò distrutta questa casa…

-    Mamma non preoccuparti, ora vai… Mirella e Clarissa sono giù che ti aspettano – alla mia frase seguì un tempestivo strombazzamento di clacson.

-   Vado. Mi raccomando…

Non la ascoltavo più. La seguivo solo, con la coda dell’occhio, mentre prendeva al volo le ultime, davvero ultimissime, cose importanti e le portava con sé oltre la porta. Rientrava poi per salutarmi, con quella sbadataggine identica alla mia, e mentre mi baciava pensavo che il suo buon odore mi sarebbe un po’ mancato.

Ma poco però.

-   Divertiti – dissi con un tono così apprensivo da sorprende entrambe.

-   Hai paura che la tua mammina non sia responsabile?

-      Me lo auguro! – mi ero affrettata a smentirla, mentre lei, di tutta risposta, aveva inarcato le sopracciglia assumendo la solita espressione interdetta.

Mia madre ed io. Tasselli incompatibili che avevano trovato il modo di incastrarsi lo stesso.

-   Ciao mamma – la salutai, scandendo bene ogni lettera.

-   Ho capito, me ne vado, me ne vado.. ricordati l’acqua alle piante! Se me le fai seccare ti uccido!

-   Ciao mamma – la accompagnavo alla porta, con un braccio intorno alle sue spalle.

-   Non spingere sai.. e non portare gente in casa!

-   Ciao mammina.. ti aspettano.. buon viaggio… – e la porta si chiuse dietro di lei.

Sospirai.

Libera.

Finalmente.

Via le scarpe. Acceso l’impianto stereo. Chet Baker. Summertime. E Limoncello.

La mia smania di solitudine e il mio liquore preferito scolato sulle note di un mito. La cucina, il tavolo ed io sopra il tavolo che muovevo piccoli passi di danza e schivavo il preziosissimo lampadario in plexiglass all’ultima moda di mia madre.

-   Che è questo accrocco?

-   L’accrocco come lo chiami tu è l’opera d’arte di un grande artista, un mio amico.

-   Già me lo immagino.. un capellone con l’aria da finto genio assunta al solo scopo di rimorchiare. È un pezzo di plastica colorato, nient’altro – le avevo risposto quella volta, con un tono stizzito tirato fuori apposta per massacrare le nuova fiamma di turno.

Quando il limoncello diventò troppo nello stomaco e l’altezza in cui mi trovavo iniziava a farsi pericolosa, con un balzo sgraziato raggiunsi il pavimento.

Spalancai tutte le finestre al caldo torrido dell’estate di Roma. Summertime era in rewind.

Altro che Vasco Rossi.

Mentre gironzolavo per casa finii nella stanza di madre e poi, sempre molto casualmente, spalancai le ante del suo armadio. Da lì poi fu un attimo. La raccolsi tra le mie mani, la guardai un po’ prima di aprirla. Era una vecchia scatola di latta con gli angoli ammaccati. Dentro c’erano quelle che io chiamavo le reliquie di mia madre. Ricordi di una vita, solo quelli abbastanza piccoli da poter essere riposti con ordine in un cofanetto, impilati stretti uno dentro l’altro, uno sopra l’altro.

C’erano foto di lei con papà. Poche.

Poi foto di lei. E basta.

Lei sul motorino, lei con le sue amiche, lei al mare, lei a passeggio, lei con gli occhiali da sole, lei  che fuma una sigaretta… la scatola era uno specchio sulla sua vita e del suo carattere.

Sul lato destro della scatola, c’erano le loro lettere. Mio padre aveva iniziato a scriverle quando faceva il militare e poi aveva continuato anche dopo, come se a voce non venisse altrettanto bene a dirle certe cose. Così utilizzava la penna, per lo più ad inchiostro, per riempire pagine e pagine scritte senza lasciare molto spazio al bianco del foglio. Altre volte, invece, si trattava di brevi messaggi, risposte o domande, avvisi. Le risposte erano le mie preferite. Quando di nascosto venivo a curiosare mi soffermavo sempre su quei pezzetti di carta strappata male. Pensavo alla loro storia, alle poche cose che sapevo di mio padre e a quelle che non avevo il coraggio di chiedere. Indagavo con la fantasia, scrutavo i segni della sua calligrafia, convinta che solo quelle brevi frasi mi avrebbero raccontato del suo lato più autentico.

Le persone sono quello che dicono o scrivono di getto. Non quello scelgono o programmano di essere.

Ero su questo ultimo pensiero quando notai sotto le foto un grande sigaro. Corsi in camera mia, frugai nel cassetto del comodino finché non trovai la scatola di fiammiferi. Ne accesi uno e poi il sigaro.

Summertime ancora suona fortissima con quella leggerezza mista a sconforto.

A quelle note non importava essere ascoltate.

Spalancai anche la finestra della mia stanza e mi affacciai di sotto, aspirando forte il sigaro. E tossendo, altrettanto forte. I palazzi di fronte mi impedivano ogni accesso al cielo, allora calai giù lo sguardo, scrutando verso il basso. Un ragazzo biondo, carico di valige, attirò la mia attenzione. Scendeva dal taxi e raggiungeva l’ingresso del palazzo con passo esitante. Con la musica alta non riuscivo a sentire le parole che scambiava con il tassista, ma li vedevo entrambi gesticolare. Sembravano non spiegarsi. Quando il biondino gli mollò due pezzi da venti, il tassista sembrava già aver cambiato umore,  gli strinse la mano e ripartì subito.

Il ragazzo rimase solo. Prima di avvicinarsi al citofono alzò il capo e guardò nella mia direzione, regalandomi un ampio sorriso. Con l’indice mi faceva il segno OK.

Ero confusa.

Ma diceva a me?

Qualche istante dopo mi tornò in mente che la mia musica stava risuonando per tutta la via, probabilmente si riferiva a quella. Forse anche lui era un fan di Chet Baker o in alternativa apprezzava i miei tentativi di rianimare la zona diffondendo nell’aria un po’ di jazz.

Risposi con un pacato gesto della mano e un mezzo sorriso che non lo raggiunse, perché lui era già impegnato nello scrutare i nomi del citofono. Chissà quale cercava.

Era il terzultimo pulsante. C’è ancora scritto Menditti, ma la famiglia si era trasferita da qualche tempo e l’appartamento era vuoto nell’attesa di venire affittato.

Il ragazzo suonò diverse volte, mentre il suo volto si faceva sempre più imbronciato. Premeva insistentemente con le sue guance che diventavano da pallide a rosso paonazzo. Vedevo le sue labbra muoversi senza riuscire a leggerne il labiale.

-   Se ne sono andati, si sono trasferiti.. non ci sono! – urlai da di sopra.

Lui mi guardò facendomi un cenno con il capo, come se non avesse capito.

-   Non ci sono.. è inutile che suoni!!

Era rimasto fisso immobile, tra le sue valigie, con le mani sui fianchi. Sembrava piantato al suolo. Il viso sempre più rosso.

Corsi di sotto ad abbassare la musica e mi riaffacciai alla finestra.

-   Hai capito? Non ci sono.. si sono trasferiti?

-   Io no capire. Dove andati?

Era inglese o americano.

-   Di dove sei?

-   Glasgow. Cerco mio padre. Menditti. Marco. Sai dove andato?

Feci cenno di no con il capo. Quale padre si dimentica di avvertire il figlio che si è trasferito?

-   Non hai il suo numero di telefono? – con le dita feci il segno della cornetta e l’avvicinai all’orecchio.

-   No, I don’t.

Si era portato una mano sulla testa. Con l’altra raccolse al volo uno zaino che stava cadendo dal mucchio di valige accatastate l’una sull’altra.

È un bel guaio..

-   Potrei salire?

No. Non se ne parla.

-   Stanco morto, sedere un attimo..

Lo guardai per il tempo che serviva a decidermi. Cosa dovevo fare? Lasciarlo per strada al caldo bollente di una città che d’estate diventa fantasma, con la delusione in corpo di aver fatto un viaggio a vuoto? Almeno per qualche ora, giusto per organizzarsi…

-   Let’s go! – risposi, un po’ titubante, senza sapere se fosse quella la giusta traduzione di “ti apro, ma guarda che poi, quasi subito, te ne devi andare!”.

Sorrise.

-   Secondo piano.

Sorrise ancora, scuotendo la testa.

Andiamo bene, questo non capisce neanche una parola. Adesso devo anche scendere e scarrozzargli le valige.

Si era messo comodo sul divano e aveva chiesto un semplice bicchiere d’acqua. Poi lo sguardo gli era caduto sulla bottiglia di limoncello lasciata aperta sopra il tavolo e mi aveva anche chiesto se Chet Backer era il mio musicista preferito o se lo ascoltassi solo quando volevo ubriacarmi.

Lo guardavo stupefatta mentre cercava di formulare le sue domande con quella pronuncia ridicola che hanno gli inglesi quando tentano di parlare in italiano. Ridicola e buffa. E bella.

Mi chiese se potevo fargli attaccare la spina per ricaricare il telefonino. Chiamò sua madre, parlò fitto fitto con lei per parecchi minuti, le raccontava di trovarsi in un posto magnifico, che il mare era splendido e si mangiava benissimo.

Il mare?

Si scusò con lei dicendole che era con un’amica e contemporaneamente mi lanciò un sguardo da goffo seduttore. Quando concluse la telefonata si accorse della espressione confusa che aveva assunto il mio viso e così iniziò a spiegarmi, o meglio, a tentare di spiegarmi, con le quattro parole che sapeva in italiano e per il resto utilizzando un inglese masticato alquanto incomprensibile.

Cominciò con il dire che i suoi avevano divorziato molti anni prima e lui era rimasto con la madre a Glasgow. Mi disse che non aveva più alcun contatto con il padre da quattro anni e così non appena aveva scoperto il suo indirizzo era salito sul primo aereo per Roma, raccontando alla madre non so quale balla.

Scoppiammo a ridere divertiti quando ci accorgemmo che per scambiare poche parole ed attribuire loro qualche coerenza ci avevamo impiegato quasi un ora.

Gli offrii un po’ del mio limoncello e subito dopo Chet Baker tornò a suonare la sua tromba.

I Fall in Love Too Easily. Nella speranza che non fraintendesse.

Lui sembrava apprezzare, con il mio stupore. Dondolava le testa e le spalle, ad un tratto chiuse gli occhi e si alzò di scatto. Iniziò a muoversi, sollevando le braccia e girando più e più volte su se stesso, con dei movimenti così buffi che mi impedivano di trattenere le risate. Mi costrinse a ballare con lui, con quelle mosse sgraziate che avrebbero potuto rovinare per sempre una bellissima canzone.

-   Ti sei già dimenticato di tuo padre? – riuscii a dire mentre mi coinvolgeva in una serie di giravolte che iniziavano a far ballare il pavimento.

-   No. Ogni cosa ha tempo che è suo – rispose con un’espressione limpida del volto.

-   Che significa? Dove hai imparato l’italiano?

-   Oggi non era tempo di incontrare. Lui mi ha insegnato italiano, ma poco.

Continuammo a ballare e a bere finché il biondino a cui mi ero dimenticata di chiedere il nome non crollò sul tappeto addormentato.

Non dava più segni di vita.

-   Tom… Jimmy… Thomas..? Tutto bene? Stai male?

L’ho fatto secco, almeno non tenterà di approfittarsi di me.

-   Solo sonno.. dormire un po’ – disse, mettendosi più comodo sul divano.

-   Va bene, ma domani te ne vai però..

Alle sei e mezza del mattino Comprami di Viola Valentino risuonava per tutta la casa. Mia madre si era dimenticata di disattivare la sveglia. Schizzai in camera sua per spegnerla ed evitare che si destasse il bell’addormentato ancora disteso sul mio divano.

Avevo ospitato in casa uno sconosciuto, pensando bene di innaffiarlo di limoncello e poi lasciandolo dormire beato in soggiorno. Chissà quali strane idee si poteva essere fatto su di me. Scrollai la testa per evitare di pensarci.

L’armadio nella stanza era ancora aperto. La scatola di latta dimenticata semichiusa e il sigaro spento abbandonato sul davanzale della finestra.

L’attrazione verso quel piccolo cofanetto era la stessa del giorno prima. Tirai fuori le foto, le lettere e i foglietti di papà. Sul fondo c’era una vecchia spilla d’argento con la forma di una chiave di violino. La presi tra le dita per vederla meglio. Era attaccata ad un foglio di carta ingiallito.

C’era un altro messaggio. 

Ti scrivo su questa terrazza che guarda alla mia terra. Da qui la vita mi pare uno spettacolo. Poche ore fa mi hai dato la notizia, al telefono. I suoi occhi saranno verdi come queste colline? O forse belli come i tuoi. Non importa, vorrei portarla qui un giorno. Giorgio.

Sorridevo in preda all’emozione facendo scorrere lo sguardo ancora e ancora sulla calligrafia di mio padre. Parlava di me. Sulla carta c’erano un luogo e una data.

Montecastello Vibio, 5 Maggio 1990.

-   Che fai?

Sobbalzai. Dietro di me era ricomparso il biondino sconosciuto, con aria assonnata si stropicciava gli occhi e si sistemava goffamente i capelli.

-   Ciao – disse di nuovo, per tirarmi giù dalla nube di pensieri in cui mi ero andata a nascondere.

-   Sei il principe della riservatezza… potevi bussare.. o da voi non si usa? – risposi seccata.

Scosse la testa come per dire che non capiva.

-   Comunque ora devi andartene, se vuoi facciamo colazione insieme e poi te ne vai.. anche io devo partire.

-   Non so dove andare.

-   Mi dispiace.. io devo partire.. e tu devi trovare tuo padre, altrimenti avrai fatto un viaggio a vuoto… viaggio a vuoto…capisci?

-   Venire con te..? Ho nessuno… nessuno qui.

Di nuovo. Quello sguardo tirato fuori dalle tasche, solo per convincermi.

-   Ti prego.. amici noi!

E il suo italiano masticato peggio dell’inglese.

Il cartellone delle partenze non indicava ancora il nostro treno. Il viaggio sarebbe stato breve, appena due ore e trentacinque minuti.

-   C’è mare?

-   No, in Umbria non c’è il mare.

-   Peccato. Dico bene peccato?

Sorrisi. Sì diceva bene. Cosa poteva esserci di affascinante in un luogo senza il mare? Eppure quella doveva essere in parte anche la mia terra, un pezzo di me che non avevo mai conosciuto e che ora mi ero decisa a raggiungere con un amico nuovo e lasciandone del tutto all’oscuro mia madre. Il suo silenzio sulla storia di Giorgio, fatto apposta per non farmi provare nostalgia per un padre che non avevo potuto conoscere, aveva procurato in me l’effetto opposto. Ora, con in mano quel prezioso pezzo di carta, partivo per trovare ricordi che non mi erano mai appartenuti. Rubarli era nel mio diritto.

-   Io Edoardo.. tu? – solo adesso mi diceva il suo nome.

-   Linda.. nice to meet you!

Rise, forse della mia terribile pronuncia.

Nell’attesa dell’annuncio del nostro treno gironzolavamo per la Stazione Termini, invasa dai turisti giapponesi che d’estate ripopolano la capitale.

-   Vado a fare i biglietti..

-   Yes! Compro cose da bere.. lì – con l’indice mi indicava il bar all’ingresso principale della stazione.

Dieci minuti dopo ero alla ricerca di Edoardo. Guardai bene tra i clienti del bar che affollavano il bancone. Una bella donna beveva la sua spremuta d’arancia fissando continuamente l’orologio al suo polso. Attendeva qualcuno, con evidente trepidazione. Un prete tentava con affanno di tenere a bada un folto gruppetto di ragazzini scatenati che si accalcavano alla cassa reclamando il loro scontrino. Più in fondo, quasi alla fine del bancone, due giovani asiatiche si scambiavano risatine con alcuni ragazzi italiani che cercavano di attaccare bottone gesticolando loro qualcosa.

Di Edoardo nessuna traccia.

-   Scusi!! quel ragazzo inglese, biondo..? Lo ha visto andare da qualche parte?

-   A signorì io sto a lavorà qua.. mica vedo dove va la gente! E poi biondo e inglese.. m’ha detto tutto..

Mi guardavo intorno con la forte tentazione di rinunciare a cercarlo e di partire da sola.

-   Credo sia entrato lì… – un ragazzo mi indicava con un cenno del capo la libreria davanti al bar.

-   Ti ringrazio – risposi con un sorriso.

Era tra i libri di poesia. Assorto. Sarei dovuta essere arrabbiata con lui, ma vedendolo tra quegli scaffali, mentre sfogliava un libro dopo l’altro con rapidità allucinante, mi avvicinai incuriosita per capire cosa stesse cercando.

-   Cosa guardi?

-   Pablo Neruda. Ode all’odore della legna. Conosci?

-   No.

-   È mia preferita. Ho lasciato lettera in cassetta della posta, forse qualcuno trova lettera e lui sa che lo cerco.

Parlava dell’uomo per cui era venuto a Roma. Avevo pensato che il viaggio in Italia avesse rappresentato per Edoardo semplicemente una scusa, che nascondesse dietro la necessità di evadere, di vivere un’avventura. Non ero riuscita a spiegarmi in altro modo la sua decisione di seguirmi. Il suo bisogno, invece, era identico al mio. Me ne rendevo conto osservandolo meglio, dietro quell’aria distratta e indecifrabile. Soffriva anche lui di una mancanza, anche il suo rebus restava irrisolto.

Rischiavo di rimanere delusa come lui? La fiducia che custodivo nel non ricordo di Giorgio era più forte del timore di trovare il niente nel posto in cui ci stavamo recando. Mi sarebbero rimaste le sue lettere e quelle parole che mi permettevano di conoscerlo almeno un po’.

Non mi aveva mai vista né io avevo visto lui, se non in qualche foto. Quella terrazza, di cui solo ora conoscevo l’esistenza, sarebbe stato il nostro punto d’incontro e in quel luogo sarei riuscita a toccarlo, con lo sguardo affacciato non sapevo ancora dove.

La stazione di Ponte San Giovanni era minuscola e praticamente deserta. Quando scendemmo un forte tuono ci avvertiva dell’acquazzone che era in arrivo. Una madonna candida si affacciava dall’alto di un muraglione in cemento. Dietro di lei le colline e un cielo di piombo.

Il capostazione aprì il grande ombrello rosso quando iniziarono le prime gocce, faceva la spola per riparare dalla pioggia coloro che scendevano dai treni in arrivo.

Con Edoardo attendevamo l’autobus che ci avrebbe portati a Montecastello.

Una ragazza seduta accanto a me parlava con il suo barboncino un dialetto incomprensibile.

-   Sono bellissimi questi temporali estivi – disse ad un tratto stiracchiandosi sulla panchina.

Io sorridevo e basta. Euforica come ero e pensierosa e preoccupata.

Edoardo, invece, aveva attaccato bottone con un turista tedesco che evidentemente riusciva a comunicare con lui meglio di me.

Un uomo leggeva un vecchio libro, quando sfogliava le pagine qualcuna si staccava e gli rimaneva in mano. Ogni tanto tirava fuori dalla tasca una matita per sottolineare qualche parola e appuntarsene altre a margine. Non alzava mai la testa.

Arrivò l’autobus. Solo io ed il mio compagno di viaggio salimmo. Dentro non c’era nessuno. Ci sedemmo davanti, vicino all’autista, chiedendo qualche informazione. La strada era tutta in salita, c’erano curve dappertutto ed il resto era solo verde. Verde libero, lasciato crescere senza una regola. Gli alberi avevano trovato il loro ordine da soli, nel corso della crescita, intrecciandosi, mischiandosi nei loro toni più diversi. Alcuni campi erano già stati lavorati, le balle di fieno sembravano abbandonate nella loro solitudine, nello spazio esteso che le separava. I girasoli erano ancora dritti, nel loro giallo intenso miravano al sole.

-   Il mare c’è. Verde. – disse Edoardo, illuminandosi.

Annuii. Quel posto era a me tanto caro quanto estraneo.

L’autobus si fermò su una salita, all’ingresso delle mura di cinta del paese. Mauro, l’autista, ci indicò una pensione economica in cui sistemarci. La signora Nella preparò due stanze e poi chiese cosa avremmo gradito per cena. Mentre sistemavo tutte le mie cose sentivo le mani tremarmi e il respiro affannato nei polmoni. Una parte di me insinuava nell’altra il timore di essere stata troppo avventata, di aver riposto troppe speranze in un appuntamento in cui nessun sarebbe stato ad aspettarmi. Mio padre se ne era andato prima della mia nascita e non c’era un posto al mondo in cui potessi cercare di raggiungerlo. Non sarei potuta salire su nessun treno o aereo. Non avrei potuto scrivergli per chiedergli un appuntamento. Per questo avevo lasciato spazio alla piccola follia di rivivere quel momento in cui aveva avuto notizia della mia nascita. Per essere lì, nel luogo e in quel tempo, come a tornare indietro con lui.

Quel posto però dovevo raggiungerlo da sola. Edoardo avrebbe capito, anzi, lo aveva già fatto, scomparendo di nuovo senza lasciarsi trovare.

Discesi la ripida scalinata di pietra antica, con una mano accarezzavo le mura di cinta che avvolgevano il Paese. La strada principale si frammentava in numerosi vicoli. Erano luoghi da scoprire, quelli. Prendevo le strade più strette, risalivo per le vie dove il sole non riusciva ad arrivare, poi riscendevo attraverso scalinate che parevano andarsi a nascondere, nella meraviglia delle pareti in cui la pietra addormentata giaceva sotto l’edera rampicante. Il glicine si adagiava su tutto, sui porticati di legno che incorniciavano le vie e sui terrazzi con le ringhiere in ferro battuto.

Gli scorci sulla campagna sottostante dovevano essere meravigliosi. Io li evitavo, perché era solo in un posto che il mio sguardo voleva incontrare la terra.

Mentre mi inoltravo per quelle stradine incontravo pittori e disegnatori, popolavano ogni angolo con le loro tele posizionate sui cavalletti, la carta e la matita sulle ginocchia. Passeggiavo piena di stupore, sbirciando ogni tanto sui loro lavori. Intorno, solo il suono della natura parlava, rotto a tratti dal bisbiglio di lingue sconosciute.

Arrivai alla piazza. Sui tre lati le mura e sul quarto il cielo. E la terra.

Il grigio era scomparso. Era stato, davvero, solo un temporale estivo.

Mi misi seduta ad uno dei tavolini più vicini all’affaccio, accanto a me solo altra pietra che finiva lì dove iniziava la campagna, il verde delle colline e il giallo dei campi dopo la mietitura.

A che serviva il mare?

Non era nessun un peccato. Dovevo dirlo ad Edoardo.

Nel miracolo di quella vista si realizzava la mia idea, più folle che stramba: incontrare un uomo di cui non sapevo nulla.

Ora lo vedevo. Seduto all’altro lato della piazza, anche lui con gli occhi persi sull’orizzonte. Me lo immaginavo scrivere quel messaggio che ora tenevo tra le mani, con l’emozione addosso, una di quelle che sono difficili da catturare e mettere sulla carta.

Ti scrivo da questa terrazza che guarda alla mia terra. Da qui la vita mi pare uno spettacolo. Poche ore fa mi hai dato la notizia, al telefono. I suoi occhi saranno verdi come queste colline? O forse belli come i tuoi. Non importa, vorrei portarla qui un giorno.

Rimasi a guardare il sole scendere dietro la linea ondulata che disegnata dai colli. Immaginavo mio padre godersi un sigaro con quella luce che colorava le mura di rosa, insieme al cielo. Sentivo l’odore del tabacco arrivarmi accanto ed avvolgermi, era una nostalgia invisibile e assente, di cose mai vissute.

Intorno a me la piazza iniziava ad affollarsi. Gli stessi artisti che avevo incontrato prima, disseminati per le vie del paese, si erano sistemati con i loro colori e le loro matite per godersi lo spettacolo di quella luce posata su ogni sfaccettatura di verde della campagna.

Gli alberi iniziavano ad oscillare ad un vento leggero, era un soffio piacevole, sarei rimasta lì per sempre.

Sarei rimasta.

Avrei chiamato mia madre e le avrei detto tutto sulla mia partenza improvvisa e sul desiderio di conoscere qualcosa che fosse di Giorgio e che diventasse mio. In questo modo, forse, avrei rotto finalmente quella barriera di silenzio che per tutto il tempo ci aveva tenute distanti.

Forse, lentamente, i nostri tasselli avrebbero iniziato a combaciare senza forzature.

Le parole non dette e lo scorrere degli anni sono un cattivo binomio generatore di spazi vuoti difficili da colmare e capaci di dividere. La nostalgia, invece, è un sentimento che insegna. Il ricordo permette di seguire il percorso disegnato da chi ora non c’è e fa montare dentro quella voglia di continuare, con lo stesso spirito, con lo stesso coraggio.

Scendevo per la strada che mi avrebbe riportata alla pensione. Mi era venuta voglia di raccontare ad Edoardo tutto ciò che avevo visto ed immaginato. Sentito.

Me lo ritrovai di fronte, con le valige in mano, pronto per ripartire.

-   Che fai? Te ne stai andando?

-   Yes.. Mia madre chiamato mio padre che aspetta me a Roma..

Non trovai che rispondere. Ero dispiaciuta. Delusa.

-   Non preoccupare, tu resta. Io torno.

-   E poi? Ci rivediamo?

-   Yes – annuì anche con il capo, era il modo per assicurarmi che ci saremmo rivisti, al mio ritorno.

-   Sei stato un fantastico compagno di viaggio! Ti ringrazio davvero di tutto.. Buon fortuna!

Avevo messo insieme quelle poche parole con grande imbarazzo. Quell’inglesino imbranato che conoscevo da neanche due giorni mi sarebbe mancato.

Si dice che non siano le persone a fare i viaggi, ma i viaggi a fare le persone. Così, mentre riaccompagnavo Edoardo alla fermata dell’autobus che lo avrebbe riportato dritto a Roma mi dicevo che solo grazie a lui avevo trovato il coraggio di partire vincendo ogni timore. La sua meta aveva dato impulso alla mia. La sua ingenuità era penetrata fino a quel nodo che conservavo stretto nel doppio fondo della mia vita. Mi aveva dato il coraggio di prendere e partire a cavallo di un pensiero piccolo e strambo. Tutto quello che sarebbe rimasto restava inspiegabile alle parole, ma io me lo sarei goduta fino in fondo. Mi avrebbe cambiata.

Mi sarei fermata altro tempo.

Quella piazza e quei luoghi mi chiamavano ancora, li sentivo parte di me e della mia storia.

Desideravo affacciarmi ancora su quella vista, bevendo caffè il mattino presto e limoncello la sera tardi, fermarmi a leggere sotto quei minuscoli porticati invasi dal glicine e dal profumo dei suoi fiori, curiosare alle spalle di un pittore, provare a disegnare, a scrivere. Ascoltare Chet Baker perdendomi tra i vicoli e poi imparare i nomi di ogni strada.

Nella stanza tutto era in disordine, come lo avevo lasciato.

Mi liberai delle scarpe e mi tuffai sul letto distrutta. Tra un’ora la signora Nella avrebbe servito la cena. Avevo giusto il tempo per una doccia. Controllai il telefono, mia madre aveva chiamato già due volte, non abbastanza per preoccuparsi.

Sul comodino un libro di poesie lasciato lì apposta. Pablo Neruda. Ode all’odore della legna.

Pochi versi sottolineati

L’aroma era visibile

come

se l’albero

fosse vivo.

Come se ancora palpitasse.

Visibile

come una veste.

Visibile

come un ramo sferzato.

Summertime

Di Alessia Rosati

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