SUPER 8 (Usa 2011)
Se tutto va come deve andare, e generalmente queste cose vanno sempre come devono andare, Super 8 è uno di quei film su cui si terranno corsi universitari, su cui si scriveranno saggi e articoli e su cui le generazioni future si interrogheranno e divideranno all’infinito. Questo per due ragioni legate tra loro: a) si tratta di un film cinefilo, cosa che già di per sé, storicamente, è sufficiente a far scervellare fior di critici e professori; b) si tratta di un film cinefilo, citazionista e postmoderno. Se poi si aggiunge che, con i dovuti distinguo, è un bel film, allora la frittata è fatta.
Ma andiamo con ordine. Trama. Ohio, una cittadina di provincia, 1979. Quattro ragazzini e una ragazzina stanno girando un film horror amatoriale con una di quelle Super 8 che oggi non ci sono più e che sono ormai entrate nella leggenda del cinema e nell’immaginario collettivo (cfr. anche Super 8 stories di Kusturica). Una notte, mentre stanno girando una scena ambientata in stazione, i bambini sono testimoni di uno spettacolare incidente ferroviario, in seguito al quale la cittadina viene militarizzata. Quale segreto contenevano quei vagoni? Chi non ha ancora visto il film smetta di leggere qui, perché sto per dire che quei vagoni contenevano nientemeno che un orribile ed enorme extraterrestre precipitato sulla Terra parecchi decenni prima e incattivito dalla prigionia militare. Saranno proprio i ragazzi a scoprire la verità e a salvare il paesino dal mostro e il mostro dall’esercito.
Ecco, se qualcuno di voi ha pensato a due lettere a caso, mettiamo la E e la T, be’, sì, in effetti siamo all’incirca da quelle parti. Non per niente il produttore di Super 8 è un certo Steven Spielberg, uno che, piaccia o no, a me non tanto, di alieni ne sa qualcosa. Ma c’è un altro nome illustre dietro questo film, ed è quello di J.J. Abrams, qui sceneggiatore e regista, autore insomma, noto ai più per essere stato l’eminenza grigia dietro la serie tv Lost e per aver prodotto, tre anni fa, il fantastico Cloverfield. E anche la sua presenza si fa parecchio sentire. Forse troppo. Mi spiego meglio. Super 8 parte che è una bomba, con una prima mezz’ora/quaranta minuti che non posso che definire perfetti, e che hanno il loro apice nell’incidente ferroviario – eccessivo, fracassone, tragico, terribile e geniale. Anche le scene immediatamente successive non sono male, con un crescendo di inquietudine horror la cui grandezza sta tutta nel fatto che il mostro non si vede. Poi qualcosa si spezza: ci vengono svelate le sembianze (non particolarmente accattivanti) dell’alieno, il ritmo rallenta, le scene patetiche aumentano di numero e durata e (altro spoiler) tutto si risolve con uno dei bambini che convince il mostro a parole, con retorica buonista, a lasciar stare la sua innamorata e tutti gli altri. Ecco, il limite del film sta tutto nella sua schizofrenia, nel voler essere allo stesso tempo un film di Spielberg (ogni cosa torna al suo posto, tutti sopravvivono, ogni mistero viene svelato, c’è il lieto fine ecc…) e un film di J.J. Abrams (tutto è fumoso, misterioso, tragico, spiazzante ecc… Ricordate il finale di Cloverfield?).
Eppure sono convinto che, nonostante questo grosso limite, il film in qualche modo rimarrà. Rimarrà, come si diceva, per la sua amabile cinefilia (vengono tirati in ballo i b-movies horror degli anni Settanta, certo, ma anche Guerre stellari, Stand by me, lo stesso Spielberg e numerose autocitazioni), che spesso, chissà perché, ai film porta molta fortuna (cfr. Quentin Tarantino); per la sua bellissima colonna sonora capace di oscillare con naturalezza tra il trash degli Electric Light Orchestra, il power pop dei Knack e la new wave all’acqua di rose dei Blondie; per l’interpretazione fenomenale di tutti i bambini, molti dei quali brutti e sfigati come è giusto che sia; e infine, lo ribadisco, per la sua prima mezz’ora, uno degli incipit cinematografici migliori che mi sia capitato di vedere da molto tempo a questa parte.
Siamo quindi di fronte a un nuovo E.T., a un film che saprà far sognare intere generazioni per gli anni a venire? In realtà penso di no. Perché? Per lo stesso motivo per cui critici e professori ci perderanno invece intere nottate: i film capaci di restare nell’immaginario collettivo sono quelli che nascono e si sviluppano in maniera più spontanea (il marketing virale che ha preceduto l’uscita del film mi fa venire il voltastomaco ma soprattutto getta un’ombra tristemente commerciale su tutta l’operazione), senza la pretesa o la volontà di risultare furbetti, intelligenti, colti e quant’altro. Già soltanto l’ambientazione temporale metterà in piedi un piccolo muro tra il film e i bambini di oggi, abituati a un’esistenza quotidiana e (soprattutto) tecnologica ben diversa dai loro colleghi di trent’anni fa. Ma J.J. Abrams, forse, di tutto ciò se ne infischia alla grande: la sua pellicola, bella o brutta che sia, se l’è fatta, e come per il grasso Charles, regista del film nel film, anche per lui è solo il cinema, in fondo, a contare davvero.
Alberto Gallo