Mentre aspettiamo Pacific Rim, ipotizzando che robot giganti e mostri possano rientrare nella categoria qui presente, parliamo ancora di supereroi.
Perché, sapete, l’ultimo Superman, quell’Uomo d’Acciaio cupo e tenebroso (fin nei colori della tuta), che non salva il papà per non rivelare la sua natura (papà che è andato a suicidarsi salvando il cane intrappolato in auto al sopraggiungere di un tornado) ha fatto sorgere innumerevoli sfottò e anche giuste riflessioni: sul potere dei supereroi.
Che è un potere doppio.
a) da anni, ormai, da quando la CGI l’ha reso possibile, i film sui supereroi hanno sostituito i blockbuster classici, che potevano essere le novità in campo di azione (Schwarzenegger, Stallone & Soci) e fantascienza (i film di Ridley Scott, un tempo lontano, lontano, forse, e quelli di Star Wars). Ormai si attende Iron Man e i Vendicatori. E gli incassi sono persino superiori, insieme alle folle oceaniche trascinate al cinema alla faccia della crisi del settore.
b) non riescono a scrollarsi di dosso la loro componente irrealistica. Sicché, specie nella landa italica, il supereroe è concetto buono per i bambini, per portarli al cinema dopo che ci hanno scassato le palle con richieste pressanti, e poco altro. L’autore che volesse seriamente dedicarsi a questo genere incontra i mah, sì, forse, vedrò, bah dei lettori, che come sempre in Italia si fanno riconoscere per come sanno dare coraggio a qualunque nuovo tentativo artistico (e se non l’avete capito, sì, sono ironico. In Italia si fa prima a crepare colpiti da un asteroide che ad avere un finanziamento; cose che succedono. Da noi.)
Quindi supereroi sì. Al cinema perché no. Ma… sono robe da bambini.
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E Iron Man 3, ché alla Marvel giustamente preme fare tanti soldi (lo farei anch’io), diventa quindi somma spettacolarizzazione del carattere tipo del supereroe. Il quale, tralasciando la fattispecie Tony Stark, è essenzialmente, uno stock character, ovvero un personaggio di finzione basato su stereotipi letterari e/o sociali. O il loro contrario, tipo i nemici storici del supereroe.
Quindi il supereroe dev’essere irrealistico, eccessivo, colorato, tronfio del proprio codice morale che si autoinfligge e, come detto, esplicitamente finto.
Poi arriva la DC, e a proposito, se non lo sapete, Marvel e DC sono co-proprietarie del marchio depositato “SUPER HEROES” (praticamente parlare di supereroi è parlare di roba loro, che hanno creato e gestiscono da multinazionali quali sono – anche se gli echi di John Carter di Marte vogliono vendetta contro il kryptoniano, ma non divaghiamo); poi arriva la DC, dicevo, e tenta, con Christopher Nolan, di rendere realistico l’irrealistico. E lo fa con i personaggi più famosi, quelli facenti parte dei Significant Seven (scelti da The Comic Book in America: An Illustrated History, 1989):
Batman (con la trilogia) e Superman
(gli altri cinque sono Wonder Woman, Captain Marvel, Plastic Man, Capitan America e Spiderman)
Col risultato, ridotto ai minimi termini dalle tifoserie, che i seguaci DC vengono definiti tristoni, visto l’alto contenuto depressivo delle pellicole DC, a base di eroi tormentati; mentre i Marvelliani qualcosa come un incrocio tra il carnevale di Rio e la finale di coppa, rappresentati dalla figaggine oltraggiosa di Tony Stark, a loro piace fare tanti soldi e andare al cinema a divertirsi a vedere tante belle armature e scazzottate.
E sapete come si dice: vox populi, vox dei.
La forza del simbolo è sufficiente?
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Miss Marvel
Nel dettaglio, però, la malinconia made in DC produce scene tipo quella di Costner e del cane.
O quella di Superman che conciona (cit.) (in tuta blu spento) dei massimi sistemi col Generale Zod, perché Man of Steel vuole essere un film profondo e realistico, e poi si riduce a un videogame tipico anni ’80, dove i personaggi se le danno di santa ragione e (quando la grafica lo permetteva) distruggevano tutto ciò che li circondava, facendo ridiventare irrealistico il preteso realismo, visto che non si tiene conto, volutamente, delle morti che Superman e Zod causano abbattendo grattacieli (non si sa come, vuoti – ve l’ho detto che è un videogame).
Che poi, tornando al concetto principale, il supereroe è tale perché costruito sugli stereotipi:
-mantello svolazzante (scomodissimo da indossare, ma che fa presa nell’immaginario collettivo)
-potere unico (o una gamma di poteri)
-tuta attillata (che è preferita dai fumettisti unicamente per due ragioni: esaltare la bellezza femminile, in caso di supereroine, e perché è più facile da disegnare rispetto a una complicata armatura, ad esempio)
-un codice morale astruso
Ora il punto è: è davvero possibile collocare il supereroe in un contesto reale?
E non parliamo di supereroi con superproblemi, ma di problemi reali. Superman avrà mai problemi a pagare le bollette nella sua fortezza della solitudine? Di cosa può discutere un essere invulnerabile e, ricordiamolo, che veste una tuta blu, con una giornalista? Non le scapperà da ridere trovandosi di fronte un tipo rosso e blu? Perché nella realtà, questo è quello che succede, quando ci troviamo di fronte ai cosiddetti real-life superheroes, una serie di svitati in costumi improbabili che rischiano la pelle perché vogliono essere nella realtà ciò che i supereroi non possono essere: reali.
Sembra una dicotomia inconciliabile.
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Eppure, è proprio questo il patto che fa funzionare le cose, che porta molti a preferire i vecchi film anni ’80 rispetto alle versioni “realistiche” attuali. Superman e Batman negli anni ’80 non facevano nulla per sembrare reali, e anche prima del decennio in questione, erano in un contesto che, seppur animato, si era allontanato poco dalle strisce di carta da cui quei personaggi erano nati, spesso approdati in cartoni dall’animazione strepitosa (grazie a Davide per la segnalazione), che ancora oggi colpiscono per qualità e colori.
Erano art déco in movimento, carichi di tutta la loro componente irreale e forti soprattutto di quella.
Ma voi ditemi, se volete, come considerate i super-eroi? E quali toni apprezzate nelle loro opere?
Da autore, il tentativo è allettante: riuscire a inserire perfettamente la componente supereroistica nel tessuto reale, creando una storia armonica e affascinante, completa. Che quindi non venga vista solo ed esclusivamente come roba da bambini, ma che assurga a dignità artistica. Non che i tentativi in tal senso manchino, ma è evidente che nell’immaginario collettivo l’attualizzazione dell’eroe è inesistente, in luogo di una preferenza smaccata per la versione classica, che dallo stereotipo non si discosta di un millimetro. Tutto il resto viene visto con sospetto, tant’è che si tenta di attualizzare Superman, con risultati discutibili quando non disastrosi.
Semmai, il discorso da affrontare sarebbe come staccarsi progressivamente dalla definizione di stock character per assurgere a creazione autonoma, che crea correnti d’arte, pensieri, stile, pur nella loro inevitabile natura derivativa.
Magari ne parliamo un’altra volta.