1. L’incertezza regna sovrana nel nostro modo di interpretare gli eventi odierni, in particolare quelli degli ultimissimi anni. E ognuno avanza supposizioni le più svariate possibili. Generalmente, si cerca di faticare poco e di formulare le spiegazioni più superficiali; come quelle che incolpano di tutti i mali possibili la “cattiva” finanza, la UE e l’euro; o, al contrario, sostengono che è stata proprio la carenza di Europa e di predominio di questa sugli “egoismi” nazionali a portarci nell’attuale frangente di caos e indecisione.
Una questione deve innanzitutto orientarci: l’Italia – che pure ha avuto un periodo di boom nel dopoguerra e molti anni di crescita non ininterrotta, ma comunque complessivamente buona – è sempre dipesa per i suoi andamenti da quanto avveniva sul piano esterno, quello degli equilibri e squilibri tra le grandi potenze mondiali. La situazione di “bipolarismo” (Usa-Urss) caratterizzante oltre quarant’anni di storia – non troppo incrinato allora dal terzo incomodo rappresentato dalla Cina – favorì in Italia una sorta di contrapposizione di fatto stabile tra tendenze apparentemente inconciliabili; una contrapposizione solo ideologica e di “appartenenza di campo”, nell’ambito di un continuo equilibrio di forze, pur se una fu sempre al governo e l’altra (in definitiva il solo Pci, ma partito robusto) all’opposizione. Ci fu un momento in cui ci si illuse (certuni si illusero) di scatenare una lotta al “revisionismo” (sinonimo di opportunismo e di abbandono della prospettiva della “costruzione socialistica”) di gran parte del movimento comunista mondiale (Pcus in testa; e, nei paesi a capitalismo avanzato, soprattutto il Pci), partendo dalla riproposizione di una specie di neoleninismo (il maoismo).
Non ci si accorse che – a parte una fiammata in fondo breve e fallimentare come la “rivoluzione culturale”, prolungata parzialmente e artificialmente solo fin quando Mao non morì – la serrata critica cinese al “revisionismo” sovietico fu nei fatti la copertura dello scontro tra due potenze dette “socialiste” (ma che non lo erano affatto); mentre il “revisionismo” dei PC del mondo capitalistico sviluppato (simile ad una socialdemocrazia rimasta incompiuta) fu largamente emarginato da chi non semplicemente affievolì il suo precedente anticapitalismo, ma si spostò addirittura verso l’atlantismo, cioè a favore del capitalismo statunitense, svolta che divenne del tutto lampante quando infine implosero il sedicente socialismo e l’Urss. Comunque, nel periodo del bipolarismo, anche in Italia si mantenne un equilibrio di forze, malgrado una apparisse, come già detto, abbonata al governo, non avendo però per null’affatto “tutto il potere” nel paese. In realtà, negli anni ’70 il Pci aveva già acquisito una fetta di questo potere grazie ai rapporti con ambienti statunitensi. Tuttavia, si continuò nella falsa credenza del governo Dc-Psi e dell’opposizione rappresentata dai “comunisti” (presunti servi di Mosca); una falsa credenza alimentata dai settori politici (e economici) più piattamente atlantisti per prepararsi ad assorbire tutte le “anime” moraliste dopo quella infame e mascherata operazione di giustizia che fu “mani pulite”, scatenata soltanto quando il bipolarismo internazionale crollò e messa in opera allo scopo di affidare totalmente il governo alla feccia depositata in alcuni decenni di trasformismo.
Il “bipolarismo” italiano – effetto di quello internazionale, ma con la progressiva mutazione della maggioranza piciista filosovietica (quella presa per “revisionista”, “neokautskiana”, ecc.) nei “nuovi camerieri” degli Usa – mantenne per decenni in equilibrio anche il sistema economico italiano tra industria privata e pubblica; dove la differenza non stava tanto nel regime giuridico di proprietà quanto nella tipologia dei settori produttivi, poiché la “pubblica”, per ragioni storiche, comprendeva quelli detti strategici, cioè delle fonti di energia e delle più avanzate fasi “rivoluzionarie” industriali, mentre la privata restava agganciata a più “vecchi” (“maturi”) ambiti. Comunque, soprattutto dopo il finto incidente che costò la vita a Mattei e la galera fatta subire a Ippolito, i settori “pubblici” persero una parte della spinta propulsiva autonomista; soprattutto nel senso della competizione nei confronti degli analoghi settori della potenza capitalistica predominante. Tuttavia, rimase ancora in piedi l’essenziale fino alla svolta mascherata da lotta alla corruzione della “prima Repubblica”.
E’ sintomatico che le difficoltà del settore economico “pubblico” crebbero progressivamente in corrispondenza all’avanzata del “compromesso storico” tra Dc e Pci (in realtà, furono proprio i settori piciisti fautori del cambio di campo filo-atlantico all’avanguardia nel processo compromissorio in questione), al lancio di quello che ho chiamato “antifascismo del tradimento” (nel ’76 con l’uscita del giornale “Repubblica”, ecc.), al rapimento ed eliminazione di Moro, il che significò l’indebolimento della precedente corrente di maggioranza democristiana per favorire la “sinistra” del partito, quella più favorevole all’accordo con il Pci, salvata dalla sporca operazione giudiziaria dell’inizio anni ‘90 a patto di una sua piena complicità (subordinata) con la sedicente “sinistra” (di cui divenne semplice appendice), lo schieramento decisivo nel processo di caduta dell’Italia sotto la piena sudditanza al paese predominante che, per alcuni anni, si credé riavviato al “monocentrismo” mondiale.
Dagli anni ’90 si mise in moto un processo di accelerata smobilitazione e svendita dell’industria “pubblica”, solo ritardata e intralciata dall’improvvidamente provocata discesa in campo di Berlusconi, nel mentre, dopo un decennio (1991-2001), finì di fatto il “sogno” monocentrico statunitense e tale paese decise con energia di rigiocarsi l’egemonia mondiale. In questo blog abbiamo seguito passo dopo passo l’involuzione crescente della (non) politica italiana nell’ultimo ventennio, e non mi ripeterò. Oggi stiamo però arrivando ad un punto che appare cruciale per le sorti di ciò che rimane del “pubblico”. In realtà, è apparentemente poco in confronto al passato, ma si tratta pur sempre di imprese rilevanti quali Eni, Finmeccanica ed Enel. Resteranno “pubbliche”? Non vorrei che ci si limitasse alla questione della forma giuridica della proprietà con la solita superficialità che caratterizza i fautori della risoluzione della crisi con l’uscita dall’euro, dalla UE, mediante la lotta al capitale finanziario, inteso strettamente quale bancario (mentre in realtà, come aveva capito Lenin, tale capitale è simbiosi dell’industriale e del bancario).
La questione centrale – da cui dipende, quale fattore subordinato, l’utilizzo effettivo dei settori pubblici dell’economia – è la pervicacia con cui si persegue l’obiettivo di consegnare l’Italia, senza più resistenze di qualsiasi genere, nelle mani di forze in grado di assicurare la “duttilità” del nostro territorio (e della nostra strutturazione sociale) ai fini delle strategie internazionali che gli Usa decideranno di volta in volta di seguire: con parecchie oscillazioni, dipendenti non soltanto da incertezze, ma spesso da scelte legate ai sommovimenti tipici di una fase storica in cui va accentuandosi in modo ondivago la tendenza multipolare. Non è detto che, in modo netto e lineare, le rimanenti imprese “pubbliche” verranno privatizzate. La forma giuridica scelta fornirà solo indicazioni piuttosto labili dei processi in corso; potrebbe perfino restare quella di adesso, salvo alcuni aggiustamenti (magari togliendo la “golden share”; ma è solo un’ipotesi). Nulla è deciso fin d’ora, salvo la scelta di subordinare il paese con modalità assai più cogenti, poiché esso è comunque proiettato in un’area non marginale dello scontro multipolare e della manovre tortuose delle potenze maggiori.
2. La crisi che stiamo attraversando da ormai 5-6 anni – e che continuerà a lungo malgrado effimere “ripresine”, al momento comunque solo annunciate quale “specchietto per le allodole” – dipende da questa situazione estremamente complicata, in cui la strategia del caos, apparentemente seguita dall’Amministrazione Obama, potrebbe anche essere, almeno parzialmente, conseguenza di un’autentica titubanza dei centri dominanti statunitensi, ancora oggi in posizione di “primi propulsori” degli eventi mondiali. Vengono compiute determinate mosse, a volte incerte e contraddittorie, cui rispondono con altrettanta titubanza e molta cautela i governi delle altre potenze (in crescita). In questo bailamme, l’Italia, da vent’anni affidata a governi di forze inette e politicamente inconsistenti, è arrivata ad un punto che sembra di non ritorno quanto a sfascio sociale, arretramento dei settori economici portanti (non solo d’avanguardia, ma anche quelli “maturi” tipo l’auto, ecc.), totale indecisione nel tentare di uscire dalla sedicente “seconda Repubblica” (mai nata in realtà), salvo la scelta indefettibile di rendersi totalmente subordinati agli Stati Uniti e strumenti delle loro strategie mondiali.
Le forze presenti nella sfera normalmente addetta all’attività politica, oltre che fautrici della più completa assenza di qualsiasi dignità nazionale, sono pure autentiche nullità. I settori economici che vi stanno a fianco (o dietro in quanto loro suggeritori e finanziatori) sono imprenditori che trovano il loro interesse soltanto se il nostro sistema diventa strettamente complementare a quello statunitense; per questo li ho paragonati ai cotonieri del sud degli Usa prima della “guerra civile”, che avevano la loro convenienza ad appoggiare l’opposizione inglese al protezionismo del nord, favorevole alla propria “industria nascente”. Si nota una crescente litigiosità nell’ambito imprenditoriale italiano e ancor più in quello sedicente politico. In quest’ultimo, dopo aver vissuto per vent’anni sul semplice scontro attorno al sì o no rispetto ad un singolo, e non eccezionale, individuo, assistiamo ad uno sbriciolamento dei vari schieramenti nel per ora vano tentativo di destrutturare e riconfigurare gli schieramenti in campo, onde renderli adeguati ai nuovi compiti servili di cui abbisogna il paese “padrone”, a sua volta alla ricerca di una più adeguata strategia atta ad ostacolare la crescita delle nuove potenze.
Il marasma è in aumento esponenziale; saremo costretti più volte a mutare le nostre ipotesi interpretative e previsive poiché nemmeno chi sembra avere il bandolo della matassa in mano sa bene che cosa deve fare. Il centro-destra mostra tutti i limiti del personale raccogliticcio attorno ad un leader di scarso valore e che è sembrato possedere un minimo di linea di condotta quando, per vari motivi non del tutto ancora chiari, ha stabilito date alleanze (tipo quella con Putin), dimostratesi assai poco stabili a causa della sua improntitudine e di una codardia difficile da riscontrare nella pur non esaltante storia italiana. Il centro-sinistra mantiene con una certa coerenza quelle “qualità” servili messe in mostra durante il processo di avvicinamento agli Stati Uniti, iniziato fin dagli anni ‘70 e che ha raggiunto una delle sue vette con il governo D’Alema e l’aggressione alla Jugoslavia del 1999. Ormai è però giunto al capolinea per la sua inconcludenza e arroganza; nuovi personaggi tentano di affacciarsi e affermarsi, ma difficile è dire al momento quale successo potrà arridere loro nel giro dei prossimi anni.
Dobbiamo fare molta attenzione perché, proprio a causa di questa totale incertezza e inettitudine politica degli attuali schieramenti e personaggi in campo, si assisterà ad un fuoco di fila di prese di posizione assunte nel modo più contradditorio possibile. Esse saranno comunque “sparate” con la più totale superficialità. Lo si nota pure nel campo culturale e presunto scientifico, ma in quello politico assisteremo ad autentici “fuochi d’artificio”. Le interpretazioni della crisi in chiave puramente finanziaria, con frequente ricorso alla condanna della mancanza di regole e di “etica negli affari” nella condotta di cattivi imprenditori bancari, hanno fatto da battistrada. Adesso segue il battage contro l’euro e l’organizzazione europea, in cui predominerebbe la Germania di un “malefico” personaggio come la Merkel. Sia chiaro: non si nutre alcuna simpatia per la moneta “comune” (la cui adozione ad un cambio folle è costato “d’emblée” ai redditi da lavoro dipendente la riduzione del potere d’acquisto di almeno un terzo). Ancora minore è la “tenerezza” verso una Unione europea, che quasi ricalca quella militare della Nato ed è strumento di predominio altrui; non però quello della Germania (delle cui colpe qui non discutiamo, ma che certamente non sono di poco conto), bensì degli Stati Uniti.
Qui “casca l’asino”. I critici (perfino quelli che più critici non si può!) degli assetti politici nella nostra area erigono di fatto uno scudo nei confronti dei veri “padroni”, da cui derivano le nostre (europee, ma mille volte di più quelle italiane) difficoltà. Non è un caso che – dietro a certi “assembramenti” che si atteggiano ad antagonisti del presente establishment (in particolare, lo ribadisco, nel nostro paese) mediante agitazione del tutto scomposta e priva di lucidità e pregnanza – stanno agendo centri statunitensi, i quali sono abituati, come sempre si fa in politica, a giocare su più tavoli, anche apparentemente contrapposti. Ripeto e (per il momento) chiudo: stiamo attenti, molti sono all’opera per fregarci con opposte “illusioni”! Ne riparleremo sovente.