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Chi è Bronson? Michael Peterson, in arte Charlie Bronson (come omaggio all’attore) è il più pericoloso detenuto del Regno Unito. Uno che è stato condannato a 7 anni per rapina a mano armata ed è poi finito per stare dentro 35 anni (di cui 30 in isolamento), a causa della sua condotta tutt’altro che buona. E tutt’oggi è ancora lì, in gattabuia. Bronson è un animale pazzo che ha la rissa nel sangue, un dobermann con la costante voglia di azzannare la preda. Qualunque preda. Paradossalmente, il longevo carcerato non ha mai ucciso nessuno; ferito e massacrato brutalmente sì, ma mai nessuno fino alla morte.
La sua storia, che si snoda principalmente tra prigione e manicomio, è raccontata con uno stile visivo impressionante dal nuovo fenomeno danese Nicolas Winding Refn, il regista di Pusher e Valhalla Rising, uno che è stato definito il Quentin Tarantino europeo (ma non mi sembra che abbia lo stesso gusto per i b-movies) e persino il novello Stanley Kubrick (ma il suo nome sta in coda a Christopher Nolan): paragone azzardato, ma in effetti i riferimenti ad Arancia Meccanica in questo Bronson sono evidenti. Oltre al tema della superviolenza, sembra infatti che il Refn abbia studiato bene il modo di utilizzare lo spazio filmico, lo stile delle ripresa e l’uso della colonna sonora tra classica e moderna (c’è una splendida scena sulle note di “It’s a Sin” dei Pet Shop Boys).Grandiosa l’interpretazione di Tom Hardy, che passa in un attimo dalla normalità e dalla quiete allo sguardo della follia; una sicura scommessa per il futuro e anche per il presente, visto che lo abbiamo appena visto anche nel super cast di Inception (è il “trasformista” Eames).
Ottima regia, strepitosa interpretazione del protagonista, un personaggio controverso e interessante. Eppure Bronson non è un capolavoro. Come mai? La storia è forse eccessivamente esile. Se infatti recentemente sono usciti degli splendidi film ambientati in carcere (Il profeta e Cella 211, ma non dimentichiamo anche la valida serie Prison Break), il problema qui è che Bronson per la maggior parte del tempo è rinchiuso in isolamento, senza contatti con nessuno, se non delle guardie picchiate a sangue per sano divertimento personale. La trama non riesce quindi a evolversi verso un racconto più coinvolgente e non riesce a scavare del tutto nel profondo del personaggio. Forse perché non c’è una profondità nel vero Bronson, chi lo sa?Abbiamo quindi un film che vale la visione e che ha dei punti di forza davvero forti, ma con una sceneggiatura più solida ci troveremmo probabilmente davanti a un cult assoluto. Regista e protagonista comunque da tenere d’ora in poi costantemente d’occhio.(voto 6,5)
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