“Support your local team”: quando il calcio è più di uno sport

Creato il 23 gennaio 2014 da Tifoso Bilanciato @TifBilanciato

Il calcio in Inghilterra non è un fenomeno, è un fatto della nostra vita quotidiana. Si è considerati più eccentrici se si ignora il football, piuttosto che se non ci si dedica interamente la propria esistenza. Il modo in cui pratichiamo questo sport, la maniera in cui lo gestiamo e la considerazione che gli riserviamo riflettono in pieno il tipo di comunità che rappresentiamo.


Potrebbe bastare questa frase di Arthur Hopcraft contenuta nel suo libro The Football Man per avere un’idea di cosa significhi il calcio per un tifoso inglese.
 

Non un semplice sport
Il football, come lo chiamano da quelle parti, costituisce un’autentica religione e va ben al di là del puro aspetto sportivo. Esso è il collante che, in un contesto urbano più o meno vasto ed eterogeneo, tiene unite diverse persone sotto un’unica comunità, la cui bandiera è formata dai colori della città di appartenenza. E questo forte senso di aggregazione sta alla base del concetto di “Support your local team”, che tradotto letteralmente significa “Sostieni la tua squadra locale”, un modo di tifare tipicamente britannico. In tutti i paesi d’Oltremanica, ma soprattutto in Inghilterra, questa concezione del tifo è fortemente radicata e continua a tramandarsi di padre in figlio. Ci sono città in cui si nasce con la bandiera della squadra locale già appesa al passeggino e altre ancora dove la convivenza di due club rende difficile scegliere da che parte stare. Nessun problema, in quel caso le alternative possibili sono due: seguire le orme calcistiche della famiglia oppure appoggiare i rivali cittadini, situazione che si presenta spesso in città come quelle di Liverpool, Manchester, Birmingham o Bristol giusto per citarne alcune.

 

A difesa della propria città
Ben più difficile, quanto raro, è vedere cittadini parteggiare per la squadra della città nemica per eccellenza. In realtà urbane come Newcastle, per esempio, è assai improbabile conoscere qualcuno che abbia il coraggio di tifare per l’acerrima rivale Sunderland e viceversa; così come a Liverpool è pressoché impossibile trovare qualche scouse che sostenga una qualsiasi delle due squadre di Manchester, vista la forte inimicizia che accompagna le due città.
Ma gli esempi potrebbero proseguire a oltranza, con i conflitti che riguardano anche Cardiff e Swansea, Nottingham e Derby oppure le località costiere di Portsmouth e Southampton.
In tutti questi casi, prima ancora dell’attaccamento alla squadra locale, prevale l’orgoglio di sentirsi membri di una determinata comunità e di conseguenza rimarcare la propria superiorità rispetto alla città nemica. Solo allora entra in gioco il football, strumento d’eccellenza per riversare sul campo i numerosi campanilismi presenti tra le diverse entità territoriali.

 

Un po’ di numeri
Per avere un’idea di quanto sentito sia il concetto di “Support your local team” basta guardare all’ attendance media stagionale delle squadre iscritte alle prime 4 divisioni nazionali inglesi.
Possiamo notare una media spettatori all’anno di 10mila e 6mila presenze rispettivamente per club di Football League One e di Football League Two, con picchi di 18mila spettatori per quelli di Championship, oppure cifre incredibili che portano anche 9mila tifosi a mettersi in viaggio per seguire i propri beniamini in trasferta. Parliamo di città aventi dalle 35mila alle 500mila unità circa, la cui popolazione calciofila segue e sostiene unicamente la propria squadra locale, concedendosi al massimo di “fare il tifo” alla TV per una grande della Premier League.
Se guardiamo alle partecipanti della massima serie inglese, l’attendance media si stagna sulle 35mila presenze fisse, con minimi di 20mila unità per realtà più piccole (per esempio lo Swansea, la cui città conta 170mila abitanti) a massimi di 75mila spettatori di media che seguono settimanalmente a Old Trafford il Manchester United, il cui borgo urbano contiene mezzo milione di anime.
Vi sono poi club di fama nazionale, come per esempio il Liverpool, l’Arsenal e il sopra citato Manchester United, che per via degli innumerevoli successi in patria hanno racimolato fans un po’ ovunque, pur senza slegarsi eccessivamente dal contesto urbano di appartenenza. Red Devils a parte, il cui zoccolo duro è presente nella periferia e non nel centro cittadino, si tratta per lo più di eccezioni che non sminuiscono comunque il significato di fondo alla base del “Support your local team”.

 

Gli esempi della City
E quando entrano in gioco gli innumerevoli team presenti a Londra, ecco che la suddivisione in quartieri della capitale fornisce un quadro per capire la territorialità specifica (salvo rari casi in cui questa “regola” non viene rispettata) di ogni singola squadra; se si è del nord, si sarà dell’ Arsenal, del Tottenham o del più piccolo Barnet, se invece si vive nell’elegante zona del West London si opterà per una tra Chelsea e Fulham (sebbene entrambe condividano lo stesso quartiere) oppure Queens Park Rangers; più difficile la scelta per chi abita nel sud di Londra, con Crystal Palace, Charlton, Brentford o Wimbledon a farla da padroni. Infine, nell’East End  londinese troviamo i colori claret and blue del West Ham contrapposti agli eterni rivali del Millwall, con l’aggiunta di altre realtà minori come Leyton Orient e Dagenham & Redbridge.
Forse è proprio nella City londinese che il senso di appartenenza a un quartiere e alla squadra che lo rappresenta raggiunge l’apice, in quanto rimarca l’orgoglio di distinguersi dalle altre realtà limitrofe e affermarsi gli unici e veri padroni della città. Una sorta di tentativo per rimarcare quel “Pride of London” reso possibile dai frequenti incroci che le squadre della capitale (soprattutto quelle che militano in Premier League) hanno tra loro nel corso della stagione.

 

Agli albori del Support your local team
Facciamo un passo indietro nel tempo: come è nato e come si è sviluppato il concetto di “Support your local team”, poi diffusosi a macchia d’olio in tutte le nazioni d’Oltremanica?
Torniamo al 1886, anno di fondazione della Football Association (federazione calcistica inglese che amministra il gioco del calcio in tutto il Paese), i cui ideatori, membri delle esclusive scuole private inglesi, decisero di codificare delle regole e dare un impianto organizzativo a quello che allora era un semplice passatempo per i mesi invernali che impedivano di praticare il tanto amato cricket.
Questi signori avrebbero reso il football lo sport nazionale d’Inghilterra, che troverà la sua massima diffusione soprattutto nella working class, il proletariato urbano, a differenza di rugby e cricket che resteranno di priorità dell’upper class, ovvero l’aristocrazia.
E non a caso la diffusione del calcio raggiunse dapprima le città industriali, fino a spargersi poi in tutto il resto della nazione, con il primo campionato che venne disputato nel 1888-89 dalle 12 squadre del Nord dell’Inghilterra e delle East Midlands.
Ma come si spiega un forte attaccamento per la squadra della propria città? La risposta, che tra l’altro costituisce il nodo cruciale della questione, emerge dal libro Sport and the British dello storico Richard Holt. Nel suo trattato, lo scrittore mostra che “il calcio è il mastice per tenere insieme le comunità locali, per conferire loro un senso di identità. E’ a buon mercato, facile da capire e scalda gli animi. In una società come quella inglese dell’epoca vittoriana, travolta dalla rivoluzione industriale, che ai tranquilli ritmi della vita rurale sostituiva la frenetica attività nella fabbriche della città, c’è bisogno dell’attaccamento a una qualche entità rassicurante e familiare. E cosa c’è di meglio di una squadra di calcio per sentirsi parte di qualcosa?”.
La matrice proletaria, essenza di questo modo di intendere il football, coinvolse in seguito le altre classi inglesi, in modi e tempi diversi. Fino agli anni ’90 il nocciolo duro di ogni tifoseria era formato da persone provenienti dalle working class; non a caso, inoltre, le degenerazioni del tifo trovavano la loro perfetta immagine nell’hooligan, solitamente (ma non sempre!) membro della classe lavoratrice.


Un concetto entrato in crisi con l’avvento della globalizzazione
A partire dagli anni duemila, con l’avvento della televisioni private (Sky su tutte) e l’aumento considerevole del prezzo dei biglietti per scoraggiare il fenomeno hooligans, si è assistito a un momento di crisi del “Support your local team”, specialmente nelle squadre aventi un grande bacino d’utenza. La figura del tifoso della working class ha lasciato lentamente spazio alla media e alta borghesia, alla quale il football appare un puro entertainment dai connotati dello show businness.
Così adesso a popolare le gradinate di squadre come Manchester United, Manchester City, Chelsea o Arsenal troviamo sempre più turisti stranieri – emiri, giapponesi o scandinavi- che nel loro pacchetto all inclusive vantano anche la possibilità di potersi permettere un biglietto salatissimo per assistere a un match di fascia A, quelli che noi chiamiamo le partite di cartello.
Oppure ancora esponenti di grandi multinazionali che pensano bene di affittare uno dei tanti corporate box presenti in tutti gli stadi d’Oltremanica al prezzo di 3mila sterline l’uno tramite le compagnie per le quali lavorano. Il tutto unicamente per parlare d’affari, magari dando qualche occhiata agli assist di Ozil o ai dribbling di Hazard.
La principale responsabile di questa trasformazione del calcio in un semplice intrattenimento è stata la globalizzazione, che ha reso questo sport un prodotto del mercato globale, spingendo i grandi club ad assumere i tratti delle multinazionali e cercare proseliti all’estero. E’ in tale scenario che sono esplose le dirette tv delle maggiori squadre inglesi – ed europee in generale- dall’altra parte del mondo, con cinesi e americani a formare i principali fruitori di questo nuovo, ed errato, modo di concepire il calcio. Il merchandising si è diffuso in ogni angolo del globo e costituisce una delle maggiori fonti di sostentamento economico per una qualsiasi società professionista.
Il tifoso rimane sempre un “consumatore di calcio”, ma perde la passione a favore di una forte propensione al consumo. Ed è questo che spiega al meglio perché nelle grandi realtà, soprattutto della Premier League, il tifoso vero, quello che va allo stadio per sostenere la propria squadra, resta tagliato fuori per far posto alla figura del ricco magnate straniero che può appoggiare le proprie natiche su un palco della tribuna d’onore disquisendo di questo e quell’altro con il suo vicino di posto. Ovviamente senza capire nulla di quello che realmente è il football.
Se da un lato il “Support your local team” entra in crisi per le maggiori squadre del panorama inglese, ormai ridotte a merce sottomessa al dio denaro, nelle realtà minori, quelle a partire dalla Football League One in giù, il concetto pare rafforzarsi e conservare quel senso di purezza che lo caratterizza. Lontano dall’odore dei soldi e dalle finalità commerciali di magnati senza scrupoli, le squadre locali di queste cittadine inglesi possono contare su un buon numero di tifosi che vivono per i propri colori 7 giorni su 7. E che non hanno bisogno di sedersi in tribuna d’onore o avere biglietti omaggio per sentirsi parte integrante della loro comunità.
FC United of Manchester, Wimbledon e Portsmouth: cosa non si fa per amore dei propri colori
Non mi stancherò mai di lodare il calcio inglese per tutte le favole che riesce ancora a raccontare. Sebbene anche la Premier League sia sempre più in mano a investitori stranieri, vi sono tre esempi lampanti di quanto l’amore per la propria squadra sia più forte persino dei soldi.
Il primo caso è rappresentato dal FC United of Manchester, club fondato il 19 maggio 2005 da una quarantina di ex frequentatori della Stretford End, la storica curva dell’Old Trafford cuore del tifo Red Devils. Il motivo? I tanti malumori e il forte dissenso verso Malcolm Glazer, imprenditore americano che proprio nel 2005 acquistò la quasi totalità delle azioni del Manchester United, accollando buona parte degli 830 milioni di sterline necessari all’affare sulle spalle dello stesso club.
Tale evento fu visto come un vero e proprio “attentato alla tradizione”: era infatti inaccettabile che uno straniero entrasse a far parte di un mondo (e di una storia) che non gli sarebbe potuta mai appartenere, ma ancora di più che fosse permesso ad un singolo individuo di acquistare personalmente un club, di fatto espropriandolo ai tifosi.
La politica del FC United of Manchester è molto chiara: il club appartiene ai tifosi che hanno creduto nel progetto investendo la quota stabilita dal board (12 sterline all’anno). Ad ogni sostenitore spetta un’ identica quota e ognuno di essi (nei limiti del possibile) ha la facoltà di esprimere decisioni sul club. Il prezzo di un abbonamento costa solo 90 sterline all’anno e l’FC United of Manchester ha ottenuto sin qui donazioni da circa 4000 sostenitori
Lo statuto del club non prevede né la possibilità che un singolo tifoso possa acquisire l’intera società, né che gli eventuali proventi siano ripartiti tra i possessori dellamembership. Le sponsorizzazioni sono accettate, ma non è permesso inserire loghi sulle maglie dei giocatori.
La squadra milita attualmente nella Premier Division della Northern Premier League (settima divisione del calcio inglese, equivalente della nostra Promozione) e continua a coltivare il suo segno contro l’attuale calcio moderno, sempre più snaturato della sua passione in nome del dio denaro.
Nell’estate del 2002 si era già assistito alla creazione di un club fondato dai tifosi e chiamato AFC Wimbledon. Tuttavia, in quel caso la situazione era ben diversa e oserei dire più grave rispetto alla precedente.
Accadde che la dirigenza dell’allora Wimbledon F.C. decise di spostare la squadra in un’altra cittadina, a Milton Keynes, distante 90 kilometri da Wimbledon per finalità puramente commerciali.
I tifosi la presero malissimo e alcuni di loro fondarono un nuovo Wimbledon, chiamandolo A.F.C. Wimbledon (a football club proprio per rivendicare e ribadire l’origine dal basso di questa nuova squadra). La società è infatti “formed by the fans, owned by the fans, and run by the fans”, ovvero creata dai tifosi, di proprietà dei tifosi e condotta dai tifosi.
Il trasferimento del Wimbledon F.C. nella nuova cittadina portò alla nascita della società calcistica nota come Milton Keynes Dons F.C., che attualmente gioca in League One, mentre il neo-nato AFC Wimbledon, partendo dai dilettanti, negli anni è arrivato a calcare i campi della League Two, spinto dalla passione encomiabile dei propri meravigliosi tifosi.
Esiste infine il caso del Portsmouth F.C., squadra che rischiò il fallimento nell’aprile del 2013. A partire dal maggio 2009, infatti, la società visse forti difficoltà economiche, retrocessioni e finì addirittura in amministrazione controllata. Quando tutto lasciava pensare a un fallimento del club, ecco che invece la trattativa per l’acquisto della squadra da parte dei tifosi andò in porto, grazie alla creazione della trust (associazioni di supporters ad azionariato popolare) chiamata Pompey Supporters Trust.
Dal 1992 a oggi si sono formate più di 120 trust, le quali in 19 occasioni (tra cui questa) sono riuscite a salvare club sull’orlo del precipizio, riuscendo in alcuni casi persino a rilevare la maggioranza delle azioni delle società in difficoltà.


Cardiff City e Hull City: quando i soldi vanno contro la tradizione
Non tutte le storie hanno però un lieto fine e accanto alle favole sopra narrate esistono purtroppo altre  vicende in cui la parola business ha la meglio sulla storia e la tradizione dei club.
Gli esempi ci giungono questa volta dalla Premier League e portano i nomi di Cardiff City e Hull City.
I primi sono stati oltraggiati del proprio simbolo e dei colori sociali, ininterrottamente utilizzati per 104 anni, dall’arrivo dell’imprenditore malese Vincent Tan, che ha deciso di rimuovere il colore blu dalle maglie e dallo stemma in favore del rosso. Ma non solo: Tan ha voluto poi cambiare il logo del club, relegando in un angolo il caratteristico bluedbird per fare posto a un dragone rosso, molto più appetibile nel mercato asiatico rispetto al fragile pennuto.
Il folle proprietario del Cardiff ha giustificato questa sua inaccettabile scelta sostenendo che, per diffondere in maniera più efficace l’immagine della squadra, al colore blu è preferibile il rosso, considerato benaugurante, come sarebbe dimostrato dal maggior seguito di squadre come Liverpool e Manchester United, rispetto ad altre dello stesso livello come Chelsea e Manchester City.
Non se la passano certo  meglio i tifosi dell’Hull City, il cui patron egiziano Assem Allam intende cambiare la denominazione della società da Hull City ad Hull Tigers, motivando questa sua scelta con la necessità di trovare nuove fonti di introiti (il club è uno dei pochi in Gran Bretagna a non avere uno stadio di proprietà) e con il fatto che “la denominazione City appare troppo banale e ordinaria“.
Di parere opposto sono i sostenitori delle Tigri, che non avendo alcuna intenzione di subire passivamente un cambio di denominazione della loro squadra, con 109 anni di storia alle spalle, hanno dato vita a un movimento di protesta contro la dirigenza, denominato “City Till We Die”, con l’obiettivo di far rinunciare Allam dal suo proposito.
I supporters dell’Hull City hanno portato la loro protesta direttamente allo stadio: nel corso della sfida contro il Crystal Palace, i tifosi hanno esposto uno striscione con su scritto “Siamo Hull City”, mentre contro il Liverpool un altro telo recitava: “Siamo Hull City, moriremo quando vorremo”.
Allam, in tutta risposta, ha definito “hooligans” questi tifosi, facendo sapere loro che “se proprio vogliono, possono morire appena lo desiderano”.
Il patron egiziano ha infatti investito ben 60 milioni di sterline per salvare il club dal fallimento economico e riportarlo in Premier League. “Sono un uomo semplice - ha spiegato - se vogliono che me ne vada, beh… in 24 ore il club è in vendita”.
Ma i tifosi che protestano puntano a riunire sotto la loro ala l’intero tifo arancionero nel 2014, attraverso una fusione con i “Tigers Co-op, Hull City Supporter”, la principale associazione di fan dell’Hull City oggi esistente, con l’obiettivo primario di acquistare una quota di partecipazione delle azioni del club, e di avere un ruolo importante nella valorizzazione dello stadio e dell’aria circostante, tenendo dei rapporti cordiali con la dirigenza.
Spero fortemente che i supporters di Cardiff e Hull City riescano ad avere la meglio in questa loro battaglia contro marketing e business portati da questi imprenditori stranieri, che con il calcio hanno ben poco a che fare.
Nel football, specialmente in realtà piccole e non eccessivamente ricche (Cardiff 340mila abitanti, Hull 256mila) sono proprio i tifosi di questa o quella città il motore che permette a una società di andare avanti anche tra mille difficoltà, grazie unicamente alla passione per i colori di appartenenza. E chissenefrega se la squadra ha poco appeal all’estero, meglio soffrire per qualcosa di cui ci si sente parte piuttosto che gioire per una squadra di cui non si conosce nemmeno la storia.


E in Italia?
Nel nostro Paese il concetto di “Support your local team” è purtroppo poco attuato. In primis poiché le grandi del calcio italiano –Juventus, Milan e Inter- contano una vasta schiera di sostenitori al di fuori dei confini cittadini ove esse sorgono. In particolare, la Juventus ha la stragrande maggioranza dei tifosi sparsi in tutta Italia per via dei numerosi successi riscossi in patria (fatto analogo con quanto accade in Inghilterra per Manchester United e Liverpool), mentre nella città di Torino prevale la fede granata.
In Italia vige inoltre la moda di snobbare le squadre locali perché prive di blasone e con scarsa attenzione mediatica a discapito dei grandi club, distanti anche centinaia di km dalla propria zona, che per un motivo o per l’altro riescono a richiamare un certo interesse nazionale.
Accade poi, paradossalmente, che una società seguita a malapena in Serie B da 4mila spettatori a partita (come il Sassuolo lo scorso anno) riesca quasi a triplicarne il numero nel momento della salita in Serie A, salvo nuovamente dimezzare le presenze una volta tornata in serie cadetta (è il caso del Novara, con una media-spettatori di 11mila unità in Serie A poi scesa a 5mila in seguito alla retrocessione).
Il Support your local team riesce ancora discretamente ad attecchire nel Sud del Paese, dove è possibile assistere a partite di Lega Pro-Seconda Divisione e Serie D con una cornice di anche 2-3mila persone sugli spalti. Numeri importanti, che sottolineano il forte interesse delle comunità per la propria squadra, spesso  dal passato roseo e poi scesa nel baratro dei dilettanti (un esempio è il Messina, dieci anni fa in Serie A, poi fallita, ripartita proprio dalla Serie D e adesso militante in Lega Pro Seconda Divisione).
Nell’Italia meridionale, infatti, il senso di appartenenza alle varie città –e in particolare a determinati quartieri- ha creato un forte senso di campanilismo che non si è scalfito nonostante la permanenza delle squadre di riferimento in categorie basse –spesso di tipo dilettantistico- oppure la scarsa attenzione riversata verso realtà minori.
E per fortuna che anche dalle nostre parti esiste, seppur in minima parte, un senso di quel Support your local team che tanto affascina, ma non sempre si riesce a replicare. Esportare completamente questo modo di fare il tifo in Italia è pressoché impossibile, in quanto nel nostro Paese il sentirsi parte di una comunità –e il conseguente sostegno verso i colori della squadra locale- è ancora un’ideale lontano dall’essere realizzato. Vuoi per mancanza di voglia, vuoi perché seguire le grandi del calcio va di moda oppure semplicemente perché sostenere un club dilettantistico non regala soddisfazioni e non appaga.
I tifosi inglesi, al contrario, in questo sono maestri e le tanto decantate favole del football d’Oltremanica sono quelle che vedono protagoniste piccole realtà di League One, League Two o addirittura di Conference, capaci di riempire quasi sempre i propri stadi e regalare emozioni uniche al tifoso che, in piedi e con la sciarpa attorno al collo, canta e sostiene a squarciagola i colori della propria città. 7 giorni su 7. Che si vinca o si perda. In qualsiasi categoria. Oltre il risultato.


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