Passandoci in certi desolati pomeriggi d’estate, l’impressione è quella di stare dentro un De Chirico, di essere quasi un ombra che si staglia come una meridiana di pensieri immobili. Le colonne e gli archi di Palazzo Mezzanotte e delle costruzioni di fronte, così grondanti di materia eppure così metafisici, così assenti dal paesaggio umano, ricordano il tempio di un dio lontano, un potere senza incarnazioni.
Ho lavorato per qualche anno a cinquanta metri da Piazza Affari e la sensazione è stata sempre quella di attraversare un complesso ieratico, la realizzazione in pietra della divina indifferenza di Montale tanto che non mi sarei stupito di vedere il falco alto levato. L’interpretazione perfetta di un potere che è al di là delle vite, troppo astratto per interessarsene e tuttavia dotato di un peso in grado di schiacciarle.
Così oggi in questa farsesca tragedia italiana, il fatto che il tempio sia stato violato da manifestanti, che vi siano stati tensioni e tafferugli, che siano state piantate tende contro il colosso in pietra, rassomiglia alla distruzione delle erme, al primo concreto segnale di abolizione del carattere sacrale della finanza e di riappropriazione di una consapevolezza: che quei valori febbrilmente scambiati davanti agli schermi dei computer, derivano tutti dal lavoro e dall’appropriazione indebita che avviene su di esso. E anche dalla sua umiliazione, persino dall’umiliazione di chi è lì a difendere le entrate dell’edificio dove si consuma la liturgia del mercato o quello dei chierichetti al computer, spesso precari.
E domani immagino che lo sciopero generale porterà nuova gente ad affollare il luogo e la vita a scontrarsi con la borsa. Dovrebbe essere così tutti i giorni perché è intollerabile dopo i disastri creati che continui ad essere piazza Affari loro.