Non ci riconosciamo più in niente, nella buia eclissi di ideologie e ragione, in nessuno, nella mediocrità dell’egoismo e della diffidenza, nemmeno in noi, quando il senso di perdita ci disorienta anche rispetto l’aspettativa del futuro. Ma in molti ieri si sono riconosciuti nel piccolo imprenditore di Bergamo che armato di un fucile e due pistole è entrato nella sede dell’Agenzia delle entrate a Romano di Lombardia, ha fatto uscire i clienti, trattenendo i dipendenti e lasciandoli poi uscire tranne uno. Proprio come in un western, nel buio a mezzogiorno della Padania risentita e demoralizzata, la cui pingue e ingenerosa opulenza è stata sopraffatta dalla paura dei forestieri, dell’incertezza, della fine dell’oro risparmiato dalla febbre dell’accumulazione, per mille euro di debito col fisco uno dei tanti che aveva assaggiato il sapore della sicurezza e ora l’amaro della sconfitta, è diventato un cavaliere solitario, con le sue rivoltelle, un po’ troppe per non essere inquietanti, come in un riscatto dallo stato esoso e esattore che sa solo prendere.
Pare proprio che sia la solitudine lo spirito del tempo, un isolamento incattivito e astioso, popolato da incubi e spettri, che hanno preso il posto dei sogni illusori del racconto di una realtà ricca, globale, moderna che narrava un Paese in crescita, tra i primi per ricchezza e consumi, per benessere e coesione. Quella che ci era stata mostrata come una marcia trionfale nel mondo rutilante della crescita illimitata e felice si è rivelata come una regressione, un processo di decostruzione di lavoro, risorse, valori, civiltà. Dopo essere vissuti nel grande centro commerciale del consumo ricco e spietato, aver goduto di un benessere rapido effimero da supermarket, molti, troppi si sono trovati sommersi, annichiliti dalle sberle del fine mese, delle insolvenze, dei debiti. Frustrati come per una promessa tradita, incerti tra domanda di risarcimento e dichiarazione di fallimento, contesi tra inadeguatezza e rancore.
È la solitudine frutto del personalismo arrogante in politica e dell’individualismo chiuso e aggressivo nella sfera personale, che hanno avvilito la legalità, la coesione e l’integrazione sociale, che hanno scardinato le basi di quell’ordine sociale scaturito dai valori condivisi da una collettività. Una solitudine segnata dalla perdita di stabilità, quell’anomia che provoca nei singoli individui sentimenti d’angoscia e d’insoddisfazione.
In questi giorni lo stillicidio sempre più accelerato di suicidi non può non ricordare la profezia di Durkheim , quando la mancanza d’integrazione degli individui nella società – una delle cause fondamentali del suicidio – da mero fatto individuale, diviene vero e proprio fatto sociale. E quando ricorda che quando un’intensità della vita collettiva è forte, allorchè l’aggregato assume sembianze sociali e diventa un gruppo compatto e solidale, allora l’individuo è forte nella sua lotta preservandosi dal suicidio, combatte con gli altri “con più resistenza al duro sacrificio per la comunanza dell’esistenza”.
Sembra che in questa società dominata dal profitto e dall’accumulazione, perfino il suicidio perda la sua dimensione eroica, provocatoria, dimostrativa: diventa il suicidio anomico, la cui frequenza tende ad aumentare in periodi di crisi economica o, inaspettatamente, in fase di strema prosperità, a causa della mancanza di riferimenti, norme e valori socialmente condivisi, un atto tragicamente solipsistico, raggelante per l’istantaneità del gesto che si materializza dopo una tremenda e orrenda preparazione, ma inevitabilmente irriverente degli esiti sugli altri, sulle persone amate, oggi su quelle vedove che scendendo in piazza lo rinnegano, preferendogli lo stare insieme, il gridare la collera per un’ingiustizia che strappa la vita.
Insoddisfazioni, progetti irrealizzati e irrealizzabili, routine che interrompono un ritmo armonioso per diventare sempre più affannose, nelle troppe varianti della precarietà, cancellazione del futuro, la consapevolezza sorprendente di rientrare nel numero degli svantaggiati, tutto questo sta facendo di noi un popolo di vittime, incapace di mobilitarsi civilmente e nemmeno emotivamente. E d’altra parte il più grande successo di questo governo è la sapienza con la quale ha compiuto l’opera di disgregazione, la poderosa alimentazione dei conflitti, la violenta frattura dei vincoli i più solidi, antichi, duraturi, applicando la loro economia a nutrire rancore, separatezza, risentimento. A alimentare quella miso-cosmia, quell’odio per il mondo, per tutto quello che sta fuori, sopra e sotto, che agita la moltitudine dei deprivati e depredati. E l’ira, la faccia nera della domanda di riconoscimento dei bisogni e dei diritti negati, da dispersa e rarefatta si condensa su figure identificabili, la donna, il diverso, l’immigrato, il nomade, lo straniero. Compreso quello che c’è in noi.
È proprio l’assenza di immagini del mondo capaci di indirizzare l’ira in un progetto politico di rivoluzione del mondo, di progettare e organizzare la vendetta terrena dei vinti e degli oppressi che ha cantato il de profundis della politica.
Il riscatto allora è quello, recuperare la solidarietà, combattere insieme, dare una potenza coesa e libera alla riappropriazione dell’incollerita responsabilità delle nostre esistenze, che vogliamo riprendere in mano.